SIAMO ANCORA OSTAGGIO DI MORO

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moro.jpgA trent’anni dal rapimento e dalla morte dell’onorevole Aldo Moro, allora presidente della Dc, si impone la constatazione di un dato di fatto: siamo ancora tutti ostaggi di quella vicenda e viviamo in un paese che ha imposto e codificato riti e comportamenti collettivi obbligati a partire dall’esperienza dei 55 giorni del sequestro Moro.

Moro infatti ha preso prima di tutto in ostaggio la sinistra antagonista. L’idea che la radicalizzazione delle lotte conduca a una situazione in cui avvengono rapimenti come quello di Moro, a cui segue l’inevitabile repressione, è un incubo dal quale la sinistra antagonista non si è ancora liberata. Le BR, e l’esito pesantemente repressivo della risposta dello stato, appaiono un destino della politica antagonista e non il processo di un determinato periodo storico. Il secondo modo con cui Moro tiene in ostaggio questo paese sta nell’idea che le sorti politiche dell’Italia in ultima istanza siano fatte solo dai servizi segreti. Basta ricordare le accuse sui “black bloc manovrati dai servizi” dopo il G8 di Genova per rendersi conto come in Italia la lettura dei processi sociali sia ancora talmente inquinata dal problema dei servizi, nei momenti di acuta crisi sociale, da non saper spiegare in quali momenti I servizi effettivamente agiscano ed in quali ciò che accade sia frutto di spontaneità. Il terzo modo in cui il ricordo di Moro tiene in ostaggio la politica italiana è l’idea che l’alternativa tra forze politiche sia possibile solo tra partiti dotati di una decisa omogeneità culturale pena la crisi irrimediabile della nazione. In questo la politica del compromesso storico, precedente e successiva al caso Moro, marca un precedente che condizionerà tutta la vita dei partiti italiani fino ai nostri  giorni. Che sono I giorni in cui esiste un partito, il PD, frutto dell’unione di ex componenti dello schieramento dell’unità nazionale di allora, che teorizza la possibilità di un nuovo compromesso storico con il maggiore partito dello schieramento avversario.

C’è infine un ultimo modo con il quale Moro tiene ancora oggi in ostaggio la vita politica italiana: quello che vuole ogni dissidente politico nei confronti dello schieramento istituzionale un terrorista da annientare con politiche di emergenza in nome del “bene del paese”. Questo atteggiamento di riduzione a puro problema di ordine pubblico della dissidenza politica, dopo significativi campanelli d’allarme, trova una consacrazione proprio con il rapimento Moro.

Ma cosa successe 30 anni fa ? Aldo Moro, presidente della Dc, venne rapito il 16 marzo 1978 poche ore prima del varo del governo Andreotti tenuto in piedi dai voti determinanti del PCI. Verrà ritrovato cadavere a Roma il 9 maggio dello stesso anno. Sia il rapimento che l’esecuzione saranno rivendicati dalle Br. Nei 55 giorni del rapimento succede di tutto: complotti, falsi comunicati che annunciano il ritrovamento del cadavere di Moro nel lago della duchessa, lotte interne tra forze politiche, colpi di scena. Ma soprattutto accade questo: la democrazia cristiana e il PCI, in nome della “lotta al terrorismo”, si intrecceranno in un modo tale che il PCI non riuscirà più a presentarsi come una forza antisistema. Era il progetto di Moro che con la propria morte vedrà quindi compiuto: la riduzione del PCI ad un partito di stabilizzazione del sistema.

La vicenda Moro si inserisce oltretutto all’interno della crisi del movimento antagonista e nell’ascesa del fenomeno della lotta armata all’interno della sinistra di classe. Il rapimento di Moro funzionerà come una “chiamata alle armi” per una generazione che aveva perso la speranza nella lotta politica e come pretesto per la militarizzazione della società da parte dell’alleanza DC-PCI.

Dei lutti, delle tragedie, delle trame di allora oggi non è che rimasta la rappresentazione ufficiale. Che vuole Moro beato martire della democrazia repubblicana quando si tratta della stessa persona che teorizzava pubblicamente la non processabilità della DC negli scandali per corruzione. Che vuole il regime del compromesso storico DC-PCI come difensore della democrazia quando è proprio in quel periodo che si creano quelle leggi speciali lesive dei diritti fondamentali di ogni cittadino che ancora oggi nutrono il nostro ordinamento.

Non a caso il parlamento ha decretato che ogni 9 maggio, a partire da quest’anno, sia giornata della memoria dello stesso tipo di quella per Auschwitz o per le foibe. La santificazione di Moro serve a leggere gli anni ’70 come il periodo in cui lo stato,aggredito, ha difeso e consolidato la democrazia. Quando invece, a partire dal 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana, lo stato ha persino commesso  stragi per impedire l’emancipazione collettiva e mantere il privilegi di una casta di governo.

Dopo trent’anni si tratta quindi di liberarsi davvero di Aldo Moro. Che il suo corpo riposi in pace e che la società italiana non sia più ostaggio del suo ricordo.

 

 

 Il fratello Giovanni: "Fra Terrasini e Cinisi mai una manifestazione così nutrita"
Il corteo finisce davanti alla casa a ‘cento passi’ da quella del boss Badalamenti

In seimila per Peppino Impastato
ucciso dalla mafia trent’anni fa

Il sindaco: "L’aula del consiglio comunale sarà intitolata a lui a fine giugno"


 

CINISI (PALERMO) – "Fra Terrasini e Cinisi non si era mai vista una manifestazione antimafia così nutrita". Le parole di Giovanni Impastato, fratello di Peppino, hanno salutato il corteo che ha ripercorso l’ultimo tragitto fatto con la sua auto dall’ex militante di Democrazia proletaria prima di essere assassinato dagli uomini di Tano Badalamenti, la notte tra l’8 e il 9 maggio di trent’anni fa.

Dalla vecchia sede di ‘Radio Aut‘, a Terrasini, le oltre seimila persone dietro lo striscione con su scritto "La mafia uccide il silenzio pure", hanno raggiunto Cinisi, dove la manifestazione si è conclusa davanti alla casa natale di Peppino Impastato, a ‘cento passi’ dall’abitazione del boss Badalamenti, come ricorda il titolo del film di Marco Tullio Giordana. Un importante punto di memoria e raccordo delle diverse esperienze antimafia e di impegno civile che è stato trasformato da Giovanni Impastato, nella "Casa Memoria Peppino e Felicia Impastato", intitolata anche alla madre che fino alla morte nel 2004 si è battuta per ottenere verità e giustizia. Solo nel 2002 Badalamenti fu condannato all’ergastolo come mandante del delitto, per anni archiviato come un incidente da inquirenti che avevano preso per buona la messinscena dei mafiosi: il cadavere di Impastato, esponente di Democrazia proletaria, era stato abbandonato sui binari nei pressi della stazione di Cinisi, come se fosse morto durante un attentato dinamitardo che stava preparando.

Fra la folla anche l’ex leader di Dp, Mario Capanna, un gruppo in rappresentanza del comitato "No Dal Molin" e uno di quello "No Tav". Luisa Impastato, nipote di Peppino, ha distribuito quattromila fiori, gerbere donate al forum sociale antimafia, da un’associazione pugliese. Presente anche Francesco Caruso, espressione dei movimenti no global. E poi i vecchi compagni di Peppino e tanti giovani del movimento antimafia rinato negli ultimi mesi a Palermo. Nel corteo, che all’ingresso a Cinisi ha intonato "Bella ciao", tante bandiere rosse. Ma lungo la strada dei "cento passi" la maggior parte delle finestre sono rimaste ancora una volta chiuse e pochissime persone si sono affacciate.


"Cinisi ha fatto una scelta antimafia chiara, non è più dalla parte di Tano Badalamenti, ma si riconosce in Peppino Impastato", ha detto il sindaco Salvatore Palazzolo annunciando che "L’aula del consiglio comunale sarà intitolata a fine giugno a Peppino Impastato".

 

 

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