POSSE – ormai storica rivista di "politica, filosofia, moltitudini", il cui primo numero era uscito all’indomani della rivolta di Seattle (inizi 2000) – sta cambiando pelle: da due mesi è on line il suo sito con gli ultimi numeri cartacei pubblicati e un archivio che viene man mano ampliato, insieme a materiali teorici inediti, traduzioni e recensioni.
Qui la redazione di POSSE spiega la vera e propria sfida, politica ed editoriale prima ancora che tecnica, rappresentata dalla scelta di "fare una rivista sul web" e cerca di misurarsi fin da subito con interventi e linguaggi in grado di esercitare una presa diretta sulla realtà, adeguata ai tempi terribili ma anche ricchi di potenzialità trasformative, che stiamo vivendo.
Da oggi alla fine di settembre, la redazione di POSSE avvia perciò una sperimentazione, che consiste nella pubblicazione ogni settimana di un editoriale dedicato ad un tema di cogente attualità. Il primo intervento (21 luglio) "Tutto il potere all’autoformazione", è stato dedicato da Gigi Roggero ai processi che, dall’alto e dal basso, stanno investendo l’università italiana; mentre il secondo (28 luglio), che ospitiamo qui integralmente, vede Antonio Conti e Francesco Raparelli misurarsi con una riflessione di impaziente attesa estiva sulle prospettive dei movimenti dal titolo "Movimenti: tre ipotesi in mezzo al guado".
Tutta la vita nuova di POSSE è comunque consultabile all’indirizzo www.posseweb.net e la sua redazione raggiungibile a: info@posseweb.net.
0. Da tempo è all’ordine del giorno una riflessione sulle linee di apertura di una nuova fase di movimento. Si tratta di una discussione ricca, che oscilla tra il bilancio critico del ciclo “no-global”, la crisi della globalizzazione, e una ricerca di aderenza rinnovata ai territori. Si potrà obbiettare che si tratta di discussioni oziose, perché non è possibile prevedere a tutt’oggi dove sia l’anello debole nella gestione della crisi del liberismo, né dove si formerà l’insorgenza più forte. Ma non c’è obiezione meno fallace, perché allude a una linea attendista (o ipocrita), e sottende una concezione organizzativa dei movimenti erratamente evenemenziale: il movimento, cioè, come qualcosa che debba di fatto sciogliersi dopo i momenti di picco dei vari cicli che si attraversano. I cicli di movimento si riaprono anche perché non si aspetta l’insorgenza spontanea con la linea in tasca, e anche perché c’è quella continuità di struttura capace di interpretare la metamorfosi adeguata alla fase nuova. Le ipotesi che si fanno in mezzo al guado, dunque, servono a identificare dei punti d’attacco: poco importa se, col mutare degli eventi, debbano essere ritenute azzardate o inservibili. Intanto, sono servite a dare continuità alla voglia di mordere il presente, e a progettare il futuro.
1. La prima ipotesi che vogliamo muovere, dunque, riguarda le trasformazioni della politica: ne assistiamo a un processo di degrado, quindi, condizione della riapertura di una fase nuova sarà una reinvenzione della politica. Prima di qualificare questa reinvenzione, dobbiamo chiederci: in cosa consiste questo processo di degrado? Non si tratta semplicisticamente di attribuirlo alla crisi della rappresentanza. Una forma di degenerazione della politica attraversa anche i movimenti, e può essere sintetizzata nella disposizione all’opportunismo senza programma. Questa disposizione si presenta nella forma della frammentazione, nella quale l’organizzazione a rete non riesce a determinare processi di ricombinazione, ma solamente a riprodurne il carattere molle, indistinto, qualificato al minimo comun denominatore. L’aspetto degenerativo sta allora dentro il comportamento che tale situazione induce nelle singole unità della rete dei movimenti: massimizzare il proprio capitale simbolico nella rete, con la tensione a dirigere la frammentazione in quanto tale, lasciando così insolubile la questione di un radicamento sociale estensivo e della capacità programmatica. A volte, cioè, la politica sembra ridursi a questo: alla sopravvivenza delle strutture nella frammentazione, con l’opportunismo come unica virtù da mettere in gioco. Non che la politica si riduca mai completamente a questo: i movimenti si danno continuità, perché, fortunatamente, fanno anche altro. Ma quante volte, quest’immagine della politica, che cerca di costruire conflitto mentre ritesse il comune del legame sociale, è messa in ombra da quell’altra, che esercita l’opportunismo senza programma né progetto. Allora, è qui che possiamo qualificare una reinvenzione della politica capace di riaprire ciclo: affermando che è politico tutto ciò che costruisce conflitto ritessendo il comune del legame sociale, e in quest’opera elabora programma, e rinnova il progetto di trasformazione dello stato di cose esistenti. Tutto il resto, è altro.
2. Seconda ipotesi, quasi a far da corollario alla prima: lo spazio pubblico di movimento, così come lo abbiamo conosciuto nelle forme di organizzazione a rete dei movimenti, ha bisogno di darsi discontinuità, e divenire spazio comune dell’insorgenza sociale. Per carità, più facile a dirsi, sicuramente, che a farsi. Vale però la pena soffermarsi qui su due punti dove si è incistata una certa “mollezza” con il passare degli anni. Il primo è il carattere pubblico dello spazio di movimento. Pubblico in senso dispregiativo: di tutti, quindi di nessuno. La concezione di uno spazio politico come spazio neutrale, impossibilitato ad avere una propria impronta forte perché sia attraversabile da chiunque, è figlia di una concezione della politica come affare da “professionisti”. Sembra di rivedere, in questo senso, il concetto habermasiano di «sfera pubblica»: un’agenzia di servizio per la Politica, quella seria, legittima; la buona costituzione (o drammatizzazione) dell’agenda parlamentare; in una parola, una boccata d’ossigieno per la rappresentanza in crisi. Secondo: lo spazio pubblico ha mostrato la tendenza a caratterizzarsi come spazio d’opinione, luogo dove le singole posizioni si confrontano per formare una comunicazione verso l’opinione pubblica. Questo tratto “discorsivo”, che ha definito parte del ciclo no-global, soprattutto nelle mobilitazioni contro la guerra, ha avuto capacità estensive, ma non ha fatto “corpo”: una valutazione serena deve essere consapevole che l’opinione pubblica dotata di corpo, in realtà altro non è che coscienza di classe, mentre opinione senza corpo è un simulacro, destinato al consumo dello spettacolo mediatico.
3. Terza ipotesi che oggi è necessario avanzare è quella che vede nella crisi del liberismo e della globalizzazione il terreno dove il movimento proverà a muoversi. Il punto è, e oggi lo vediamo chiaramente, che questa crisi c’è, è già dispiegata: si tratta di non recepirla come un accidente, ma di assumere l’atteggiamento adeguato, pienamente consapevole di reinventare la politica nel tempo della crisi. Di una cosa possiamo essere certi: che in assenza di conflitto, il conto della crisi sarà scaricato per intero sulla classe lavoratrice. Su quelli che hanno il posto fisso, su quelli che vivono da precari la flessibilità, su quelli che sono formalmente autonomi. E allora compito di movimento sarà quello di girare il conto della crisi ai padroni. Come questo sarà possibile, con quali forme del conflitto e della vita comune avremo a che fare, a oggi non lo sappiamo. Non sappiamo, ad esempio, se dovremo dotarci di strutture di mutuo soccorso, se dovremo cercare d’imporre forme di welfare adeguate, se e quali lotte saranno capace di recuperare salario o fermare gli esuberi. Sappiamo però che ci aspetterà uno scenario simile, anzi, che in qulche modo starà a noi la capacità di anticipare uno scenario di conflitto. Sappiamo che il tempo della crisi chiama il movimento a una responsabilità nuova, quella di aprire lo spazio comune dell’insorgenza sociale, e di tenerlo: da qui nasce la tensione a divenire istituzioni autonome del comune. Perché la crisi c’è già, il conflitto si presenta come virtualità potente, l’attualità del conflitto è ancora da scrivere.