Teramo – Sfrattato il laboratorio anarchico “il Mulino”

Su ordinanza del comune di montorio al vomano, il laboratorio anarchico "il Mulino" viene chiuso tramite uno sfratto esecutivo, in cui viene imposta "l’immediata chiusura dell’intero locale dichiarato inagibile, assicurando il divieto di accesso all’immobile". L’ordinanza scaturisce dalle note inviate al comune stesso, dalla questura di teramo e dal rapporto dei vigili del fuoco di teramo, in cui viene specificato, da perquise effettuate dagli sbirri, la non idoneità e l’inagibilità dell’immobile. Tutta la manovra è stata dettagliatamente studiata dai tutori dell’ordine per mantenere la violenza del decoro e cio è avvenuta col decoro della violenza: la "normalità" della legge.

Il laboratorio anarchico "il Mulino" chiude, ma riaprirà a breve in nuove situazioni con la spinta del percorso che aveva intrapreso, e l’entusiasmo di tutti quegli individui che è riuscito a coinvolgere, e si sono coinvolti.

Credono di spezzare la volontà di libertà e di rivolta togliendoci gli spazi.Si sbagliano di grosso. A presto…

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Il diritto alla resistenza

Approvato il programma del governo di unità nazionale: Hezbollah non verrà disarmato

Naoki TomasiniPeacereporter

Alla fine Hezbollah ha vinto. Il nuovo governo di unità nazionale riconoscerà al partito sciita il diritto alla resistenza e il compito di liberare le zone nel sud del paese ancora occupate da Israele. In altre parole, quella dell’Hezbollah rimarrà una milizia della resistenza, non verrà integrata nell’esercito nazionale e non verrà privata delle sue armi.

La decisione è frutto di tre settimane di colloqui e almeno quattordici riunioni tra gli esponenti dei partiti di maggioranza e opposizione, riuniti in un comitato ministeriale che ha avuto il compito di elaborare le linee guida del nuovo esecutivo. Il testo è frutto, dicono entrambe le parti, di un compromesso. Ma è chiaro che, dopo settimane in cui il disarmo di Hezbollah era stato chiesto a gran voce sia da politici dell’ex maggioranza libanese che da diplomatici francesi, statunitensi e soprattutto israeliani, il riconoscimento delle milizie sciite è una grande vittoria per Hezbollah e per il suo segretario, Hassan Nasrallah.

Dopo la guerra del luglio 2006 e dopo il vantaggioso scambio di prigionieri del mese scorso, il partito sciita si accredita ancora una volta come l’unico attore regionale in grado di trattare alla pari con la potenza israeliana. Un potere che è stato ampiamente usato nelle trattative di queste settimane in cui, fin dall’inizio, Hezbollah è stato intransigente sulla pretesa di continuare a disporre della sua potente milizia. Lo scorso giugno, è bene ricordarlo, le milizie dell’opposizione libanese avevano dato una dimostrazione di forza prendendo in poche ore il controllo di Beirut, dopo che il governo di Siniora aveva proposto di smantellare la loro rete di telecomunicazioni. La situazione era stata ricomposta grazie alla mediazione del Qatar, ma quell’episodio è rimasto come un monito per le forze dell’ex maggioranza, come a dire: “ecco cosa succede se Hezbollah decide di uscire dalle trattative”.

Il documento programmatico, che avrebbe dovuto essere votato ieri al parlamento libanese afferma: “il diritto del Libano, del suo popolo, esercito e resistenza, di liberare o recuperare le fattorie di Shebaa occupate (…) e difendere il Libano da ogni aggressione (…) con tutti i mezzi legittimi e disponibili”. Il nodo da sciogliere era soprattutto il termine “resistenza”, ma che si fosse giunti ormai a una soluzione lo si era capito già venerdì 1 agosto, quando il presidente Michel Suleiman aveva metaforicamente invitato le armi dell’esercio ad “abbracciare” quelle della resistenza. Di contro, nello stesso documento programmatico si afferma l’adesione del nuovo governo alla risoluzione 1701, che pose fine al conflitto dell’estate 2006 e propone, implicitamente, il disarmo di Hezbollah: un opera di cui finora non si sono prese carico né le forze armate libanesi né quelle dell’Unifil, la missione Onu di interposizione che per questo motivo è stata violentemente criticata da Israele.

Una volta che il programma sarà stato approvato, per i 30 ministri del nuovo esecutivo, di cui Hezbollah fa parte con diritto di veto, dovrebbe iniziare l’esperienza del dialogo nazionale. La stampa libanese, a parte quella vicina a Hezbollah, parla con preoccupazione di un documento “ibrido e confuso” ( L’Orient le Jour) e di “governo di disunità” (As Safir). Di fatto il nuovo governo nasce su basi di compromesso, ma dovrebbe durare almeno fino alla prossima primavera, quando sono previste le prossime elezioni legislative.

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Como – Attaccato allevamento di fagiani

"29 luglio 2008 Figino Serenza (CO):
nelle prime ore del mattino entriamo nella proprietà dell’allevamento di fagiani "roncorone" e subito ci mettiamo al lavoro.
un lato intero della prigione (divisa in diverse voliere) viene tagiato.
Contemporaneamente viene tagliata la rete superiore aprendo grandi varchi verso il cielo stellato. In questo modo gli animali potranno fuggire verso la libertà, invece di vivere in gabbia e finire sotto il fuoco dei cacciatori.
In poco tempo il posto diventa irriconoscibile, tutte le voliere sono ormai sventrate, un enorme danno per l’allevatore, la libertà per i suoi prigionieri!
Gli animali sono nostri fratelli e nostre sorelle e liberarli dalla avidità e dalla crudeltà dei loro carcerieri è un nostro dovere.
nessuna gabbia è più forte dell’amore che proviamo!"

ricevuto da LA NEMESI – Teoria e pratica antispecista
via De Predis 9
20155 Milano

info_lanemesi@yahoo.it

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Venerdì 8 agosto ore 19.00 – FUORIsede’s Happening al Csoa Cartella

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Milano – Demolito il centro sociale abusivo «Kasotto»

Il presidio dei militanti è stato allontanato senza tensioni. De Corato: eliminata un’altra zona franca

MILANO – È stata abbattuta questa mattina a Milano la struttura abusiva costruita sulla Darsena e utilizzata come centro sociale. Il presidio dei militanti del centro «Kasotto» è stato allontanato senza tensioni dalla polizia municipale. «Dopo via Morosini – afferma il vice sindaco di Milano e assessore alla Sicurezza, Riccardo De Corato – con l’abbattimento di questo centro abusivo abbiamo provveduto ad eliminare un’altra zona franca nel pieno centro cittadino. Rispondendo, ancora una volta, ad una chiara richiesta dei cittadini, esasperati da degrado, musica e rumori molesti che si protraevano per tutta la notte fino alle prime ore del mattino».

SIMINI: BASTA ILLEGALITA’ – Soddisfatto anche Bruno Simini, assessore comunale ai Lavori Pubblici. «Con l’operazione di oggi – ha detto – possiamo liberare i cittadini dall’illegalità, dal degrado e dall’abusivismo che regnava indisturbato all’interno di questo prefabbricato. Ci sono purtroppo ancora molti spazi e luoghi resi invivibili da situazioni analoghe. Il compito dell’amministrazione comunale è cercare di restituirli ai milanesi nel minor tempo possibile».

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Libero Inaki De Juana!

Dopo 21 anni di carcere, finalmente libero il militante basco

Inaki de juana è già in Euskal Herria dopo aver lasciato la prigione di AranJuez alle 7.20 di questa mattina. Cento persone si sono ritrovate nella parte vecchia di Donostia (San Sebastian) per accogliere calorosamente la liberazione di quello che è già un "ex-prigioniero". 
De Juana ha parlato in ricordo di tutti quelli che continuano ad essere incarcerati e ha ringraziato il lavoro di sostegno dei familiari. Ha inoltre segnalato come i presos politicos e i loro familiari siano vittime designate dello stato d’eccezione creato dallo stato francese e da quello spagnolo. Ha quindi ringraziato il movimento pro-amnistia per il lavoro portato avanti in questi anni.

Non si è invece fatta attendere la risposta dello stato spagnolo. Il Psoe conferma infatti che sta studiando (ulteriori!) misure congiunte con il Partito Popular contro gli ex prigionieri politici. In concreto, modifiche giudiziarie di restrizione delle libertà e sequestro dei beni.

La storia di Inaki è singolare, anche per un popolo come quello basco che di repressione e carcere politico ne ha conosciuto molto. Arrestato nel gennaio dell’87 e condannato a 17 anni e 9 mesi, avrebbe dovuto essere liberato nell’ottobre del 2004. Nonostante avesse già scontato tutta la pena, la Audiencia Nacional revocò la sua scarcerazione. Nel luglio 2005 il Tribunale Speciale lo ricondannò con l’imputazione di "appartenenza a banda terrorista" soltanto per avere scritto 2 articoli sulla questione dei presos pubblicati su Gara. Nel giugno 2006 l’Audiencia Nacional si espresse con una condanna a 96 anni di carcere.

Da quel momento Inaki, per i successivi 2 anni, mette in atto diverse sessioni di sciopero della fame a tempo indeterminato, rischiando ripetutamente la vita. Più volte viene trasportato in ospedale e gli vengono concessi temporanei arresti domiciliari per motivi di salute.
La sua storia è (per ora!) finita con una liberazione precaria, osteggiata com’è dall’ostinazione penale dello stato spagnolo contro l’irriducibilità politica dei presos.

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Bologna, 2 agosto 1980. Una strage fascista con la regia dello Stato

28 anni dopo, la carneficina della stazione di Bologna resta ufficialmente ancora senza colpevoli

bologna_stazione.jpgIl 2 agosto ricorre il 27° anniversario della strage di Bologna. A tanti anni di distanza sono ancora poche le certezze e molte risalgono alle prime ore della strage: 85 morti, oltre 200 feriti e la stazione del capoluogo emiliano semidistrutta.

In compenso le generazioni più giovani faticano a prendere il testimone della memoria. In un sondaggio di due anni fa a cura dall’Associazione familiari delle vittime in occasione dei 25 anni della strage, nelle scuole della città colpita dalla bomba il 21,7 % degli studenti bolognesi attribuiva l’attentato alle Brigate Rosse(!), mentre il 34 % dichiarava di non avere alcuna idea di cosa si stesse parlando. E qui prima di tutto bisogna capire che esistono meccanismi collettivi di selezione della memoria storica che mandano nell’oblio, a volte temporaneo, fatti importanti per le generazioni precedenti. Ma è anche vero che quando di un evento viene trasmessa una percezione confusa è molto facile che le generazioni successive non ne colgano il significato. E la strage di Bologna è un evento del quale i contemporanei hanno costruito una percezione confusa. Nonostante diversi processi, per differenti filoni di indagine, non è effettivamente chiaro chi siano stati gli esecutori e tantomeno i mandanti.
Certamente una cosa è chiara: è stata una strage fascista. Fascista nella modalità (una bomba in un sabato d’agosto prima delle ferie alla stazione) e negli intenti, legati alla strategia permanente della tensione tramite stragismo che ha attraversato questo paese fino ai primi anni ’80.
Ma non è chiaro quali fascisti siano stati gli esecutori o i mandanti: se i Nar di Fioravanti, che ha sempre negato e che ha testimonianze a discarico come a suo carico, o se i soli servizi segreti con qualche camerata più legato alle istituzioni rispetto ai Nar. Sul piano dei mandanti, oltre all’opacità del contesto politico in cui è maturato l’attentato, sono stati inquisiti i vari Gelli e Pazienza, logge massoniche e intrecci mafiosi: tutti sono entrati e usciti in diversi processi su Bologna compresi quelli per depistaggio. Va anche detto che nel 2000 alcuni agenti del Sismi furono condannati per depistaggio sulla strage di Bologna. La stessa condanna però non consentiva di capire a favore di chi fosse fatto il depistaggio, quali fossero le responsabilità politiche e quali i mandanti reali.
Non c’è da stupirsi se in questo triste bilancio di mancato accertamento delle responsabilità va anche aggiunto il velo di rimozione che sta calando su Bologna nella memoria collettiva. I fatti cominciano ad essere lontani e i mandanti non sono riconoscibili. Uno degli errori commessi in questi anni è stato sicuramente l’assenza di una vera controinchiesta magari promossa dai parenti delle vittime. E qui la cultura istituzionalista del Pci prima e dei Ds poi ha fatto la parte del leone per frenare ogni emergere di inchieste alternative che rimettessero al centro dell’attenzione la strage di Bologna. Negli anni ’70 il libro “La strage di stato”, la prima vera controinchiesta della sinistra extraparlamentare di allora, mise in seria difficoltà le versioni ufficiali su piazza Fontana e contribuì ad orientare l’opinione pubblica verso una domanda di verità e di giustizia. Una robusta tesi da controinchiesta sarebbe stata utile anche su Bologna nel momento in cui la magistratura non poteva certo mettere radicalmente in stato d’accusa le istituzioni di cui facevano parte i servizi segreti che hanno oggettivamente depistato la verità su Bologna.

Resta quindi un interrogativo di fondo su Bologna, sugli esecutori e sui mandanti, che serve per il passato e per il futuro. Per sapere chi e perché abbia mandato al macello 85 passeggeri ad una stazione un sabato d’agosto e per contribuire ad impedire che qualcuno in questo paese, in futuro, sia di nuovo inghiottito dalle viscere della terra come in quel lontano giorno del 1980.

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LE REGOLE DEL PROFITTO

nomortilavoro - le regole del profitto

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Appello per la ripresa delle mobilitazioni contro la costruzione del Ponte sullo Stretto

Appello per la ripresa delle mobilitazioni contro la costruzione del Ponte sullo Stretto

Insieme abbiamo dato vita alla manifestazione del 22 gennaio 2006. Quella giornata segnò il punto di arrivo di un percorso più che decennale che, a partire da una ristretta area di attivisti, è giunto a mobilitare decine di migliaia di persone, ed ha fatto del movimento contro il ponte un laboratorio politico e sociale capace di far convivere al proprio interno anime molto differenti tra di loro. Fu probabilmente quella manifestazione a segnare il punto di svolta di un’intera area politica (quella dell’allora centro-sinistra) che fino a quel momento (si faccia eccezione per rifondazione comunista, verdi e comunisti italiani) si era mantenuta su posizioni in larga misura favorevoli all’opera. Fu quella manifestazione a segnalare l’avversione al ponte di una parte consistente dell’opinione pubblica. Quel segnale venne raccolto sul piano elettorale e tradotto nella formula di "opera non prioritaria" nel programma del Governo Prodi (operazione che ha fermato la costruzione del ponte, ma che ha lasciato sul campo la Stretto di Messina Spa ed il contratto con il general contractor).

Oggi ci troviamo a dover nuovamente affrontare l’offensiva dei fautori del Ponte. Sostenuti da Berlusconi, che ne ha sempre fatto una sua bandiera, e dal Presidente della Regione Sicilia Lombardo, che guarda evidentemente con grande interesse ai flussi finanziari che ne deriverebbero, i pontisti si apprestano se non proprio a costruirlo (rimangono, infatti, inalterati gli interrogativi dal punto di vista ingegneristico e del finanziamento) ad aprire un capitolo di spesa dentro il quale, di volta in volta, far confluire le risorse a disposizione per progettazione, sbancamenti, movimento terra, info-point ecc.

Va detto, peraltro, che sulla politica delle grandi opere si gioca in parte il futuro delle condizioni materiali di vita di tutti. L’utilizzo dei fondi Fintecna (originariamente destinati alla costruzione del ponte e poi stornati dal Governo Prodi per opere infrastrutturali in Sicilia ne Calabria) per coprire i mancati introiti causati dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa dimostra che i soldi per le grandi opere saranno ricavati dalla riduzione delle spese sociali (istruzione, sanità, servizi). Da questo punto di vista l’agire nell’ambito del generale Patto di Mutuo Soccorso tra le comunità in lotta contro le devastazioni territoriali da un significato politico ulteriore alla nostra battaglia.

Facciamo, quindi, appello a tutti perché si rimetta in moto la mobilitazione contro il ponte, affinché si comincino a tessere nuovamente quelle relazioni virtuose che ci hanno consentito di fermarli la prima volta, per costruire un percorso di iniziative che ci porti a realizzare, magari proprio a gennaio prossimo, a tre anni di distanza, una nuova grande manifestazione.

Stretto di Messina, luglio 2008

 RETE NO PONTE

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Movimento: tre ipotesi in mezzo al guado

POSSE – ormai storica rivista di "politica, filosofia, moltitudini", il cui primo numero era uscito all’indomani della rivolta di Seattle (inizi 2000) – sta cambiando pelle: da due mesi è on line il suo sito con gli ultimi numeri cartacei pubblicati e un archivio che viene man mano ampliato, insieme a materiali teorici inediti, traduzioni e recensioni.

Qui la redazione di POSSE spiega la vera e propria sfida, politica ed editoriale prima ancora che tecnica, rappresentata dalla scelta di "fare una rivista sul web" e cerca di misurarsi fin da subito con interventi e linguaggi in grado di esercitare una presa diretta sulla realtà, adeguata ai tempi terribili ma anche ricchi di potenzialità trasformative, che stiamo vivendo.

Da oggi alla fine di settembre, la redazione di POSSE avvia perciò una sperimentazione, che consiste nella pubblicazione ogni settimana di un editoriale dedicato ad un tema di cogente attualità. Il primo intervento (21 luglio) "Tutto il potere all’autoformazione", è stato dedicato da Gigi Roggero ai processi che, dall’alto e dal basso, stanno investendo l’università italiana; mentre il secondo (28 luglio), che ospitiamo qui integralmente, vede Antonio Conti e Francesco Raparelli misurarsi con una riflessione di impaziente attesa estiva sulle prospettive dei movimenti dal titolo "Movimenti: tre ipotesi in mezzo al guado".

Tutta la vita nuova di POSSE è comunque consultabile all’indirizzo www.posseweb.net e la sua redazione raggiungibile a: info@posseweb.net.

0. Da tempo è all’ordine del giorno una riflessione sulle linee di apertura di una nuova fase di movimento. Si tratta di una discussione ricca, che oscilla tra il bilancio critico del ciclo “no-global”, la crisi della globalizzazione, e una ricerca di aderenza rinnovata ai territori. Si potrà obbiettare che si tratta di discussioni oziose, perché non è possibile prevedere a tutt’oggi dove sia l’anello debole nella gestione della crisi del liberismo, né dove si formerà l’insorgenza più forte. Ma non c’è obiezione meno fallace, perché allude a una linea attendista (o ipocrita), e sottende una concezione organizzativa dei movimenti erratamente evenemenziale: il movimento, cioè, come qualcosa che debba di fatto sciogliersi dopo i momenti di picco dei vari cicli che si attraversano. I cicli di movimento si riaprono anche perché non si aspetta l’insorgenza spontanea con la linea in tasca, e anche perché c’è quella continuità di struttura capace di interpretare la metamorfosi adeguata alla fase nuova. Le ipotesi che si fanno in mezzo al guado, dunque, servono a identificare dei punti d’attacco: poco importa se, col mutare degli eventi, debbano essere ritenute azzardate o inservibili. Intanto, sono servite a dare continuità alla voglia di mordere il presente, e a progettare il futuro.

1. La prima ipotesi che vogliamo muovere, dunque, riguarda le trasformazioni della politica: ne assistiamo a un processo di degrado, quindi, condizione della riapertura di una fase nuova sarà una reinvenzione della politica. Prima di qualificare questa reinvenzione, dobbiamo chiederci: in cosa consiste questo processo di degrado? Non si tratta semplicisticamente di attribuirlo alla crisi della rappresentanza. Una forma di degenerazione della politica attraversa anche i movimenti, e può essere sintetizzata nella disposizione all’opportunismo senza programma. Questa disposizione si presenta nella forma della frammentazione, nella quale l’organizzazione a rete non riesce a determinare processi di ricombinazione, ma solamente a riprodurne il carattere molle, indistinto, qualificato al minimo comun denominatore. L’aspetto degenerativo sta allora dentro il comportamento che tale situazione induce nelle singole unità della rete dei movimenti: massimizzare il proprio capitale simbolico nella rete, con la tensione a dirigere la frammentazione in quanto tale, lasciando così insolubile la questione di un radicamento sociale estensivo e della capacità programmatica. A volte, cioè, la politica sembra ridursi a questo: alla sopravvivenza delle strutture nella frammentazione, con l’opportunismo come unica virtù da mettere in gioco. Non che la politica si riduca mai completamente a questo: i movimenti si danno continuità, perché, fortunatamente, fanno anche altro. Ma quante volte, quest’immagine della politica, che cerca di costruire conflitto mentre ritesse il comune del legame sociale, è messa in ombra da quell’altra, che esercita l’opportunismo senza programma né progetto. Allora, è qui che possiamo qualificare una reinvenzione della politica capace di riaprire ciclo: affermando che è politico tutto ciò che costruisce conflitto ritessendo il comune del legame sociale, e in quest’opera elabora programma, e rinnova il progetto di trasformazione dello stato di cose esistenti. Tutto il resto, è altro.

2. Seconda ipotesi, quasi a far da corollario alla prima: lo spazio pubblico di movimento, così come lo abbiamo conosciuto nelle forme di organizzazione a rete dei movimenti, ha bisogno di darsi discontinuità, e divenire spazio comune dell’insorgenza sociale. Per carità, più facile a dirsi, sicuramente, che a farsi. Vale però la pena soffermarsi qui su due punti dove si è incistata una certa “mollezza” con il passare degli anni. Il primo è il carattere pubblico dello spazio di movimento. Pubblico in senso dispregiativo: di tutti, quindi di nessuno. La concezione di uno spazio politico come spazio neutrale, impossibilitato ad avere una propria impronta forte perché sia attraversabile da chiunque, è figlia di una concezione della politica come affare da “professionisti”. Sembra di rivedere, in questo senso, il concetto habermasiano di «sfera pubblica»: un’agenzia di servizio per la Politica, quella seria, legittima; la buona costituzione (o drammatizzazione) dell’agenda parlamentare; in una parola, una boccata d’ossigieno per la rappresentanza in crisi. Secondo: lo spazio pubblico ha mostrato la tendenza a caratterizzarsi come spazio d’opinione, luogo dove le singole posizioni si confrontano per formare una comunicazione verso l’opinione pubblica. Questo tratto “discorsivo”, che ha definito parte del ciclo no-global, soprattutto nelle mobilitazioni contro la guerra, ha avuto capacità estensive, ma non ha fatto “corpo”: una valutazione serena deve essere consapevole che l’opinione pubblica dotata di corpo, in realtà altro non è che coscienza di classe, mentre opinione senza corpo è un simulacro, destinato al consumo dello spettacolo mediatico.

3. Terza ipotesi che oggi è necessario avanzare è quella che vede nella crisi del liberismo e della globalizzazione il terreno dove il movimento proverà a muoversi. Il punto è, e oggi lo vediamo chiaramente, che questa crisi c’è, è già dispiegata: si tratta di non recepirla come un accidente, ma di assumere l’atteggiamento adeguato, pienamente consapevole di reinventare la politica nel tempo della crisi. Di una cosa possiamo essere certi: che in assenza di conflitto, il conto della crisi sarà scaricato per intero sulla classe lavoratrice. Su quelli che hanno il posto fisso, su quelli che vivono da precari la flessibilità, su quelli che sono formalmente autonomi. E allora compito di movimento sarà quello di girare il conto della crisi ai padroni. Come questo sarà possibile, con quali forme del conflitto e della vita comune avremo a che fare, a oggi non lo sappiamo. Non sappiamo, ad esempio, se dovremo dotarci di strutture di mutuo soccorso, se dovremo cercare d’imporre forme di welfare adeguate, se e quali lotte saranno capace di recuperare salario o fermare gli esuberi. Sappiamo però che ci aspetterà uno scenario simile, anzi, che in qulche modo starà a noi la capacità di anticipare uno scenario di conflitto. Sappiamo che il tempo della crisi chiama il movimento a una responsabilità nuova, quella di aprire lo spazio comune dell’insorgenza sociale, e di tenerlo: da qui nasce la tensione a divenire istituzioni autonome del comune. Perché la crisi c’è già, il conflitto si presenta come virtualità potente, l’attualità del conflitto è ancora da scrivere.

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