COSENZA: SIAMO PRONTI…

 
 
50 anni di galera: basterebbe questa cifra per
annunciare battaglia alla richiesta di condanne formulata il 24 gennaio
dal pubblico ministero di Cosenza, Fiordalisi, nei confronti di 13
compagne e compagni imputati per associazione sovversiva e cospirazione
politica. Ma non è sufficiente.
C’è infatti un dato che è stato
ampiamente trascurato dalle cronache giornalistiche, e forse
sottovalutato in alcune analisi di movimento: la richiesta di 26 anni
complessivi di libertà vigilata per pericolosità sociale. Non si tratta
semplicemente di un’aggravante in termini quantitativi, ma innanzitutto
qualitativi. Proviamo a chiarire, leggendo in questo processo alcuni
elementi paradigmatici rispetto alle trasformazioni delle forme di
controllo e attacco ai movimenti degli ultimi anni.
Il teorema
accusatorio di Fiordalisi è basato sul nulla, cioè su intercettazioni
telefoniche in cui non si prova null’altro che gli imputati sono
attivisti politici. Sponsorizzato da un’informativa dei Ros tesa ad
arrestare l’onda montante dei movimenti, Fiordalisi ha agito come un
autoimprenditore del sistema penale: formulando un folle capo
d’imputazione, senza alcuna necessità di doverlo dimostrare, ha
ottenuto nell’immediato ciò che voleva, cioè visibilità mediatica e
possibilità di carriera, mandando nel novembre 2002 18 persone nei
carceri speciali, con lo strascico di arresti domiciliari e obblighi di
firma. Ecco il primo elemento: i capi di imputazione hanno come primo
obiettivo quello di ottenere un’immediata limitazione delle libertà
degli attivisti, indipendentemente dalla possibilità di essere
dimostrate in sede processuale. Il meccanismo giuridico si rovescia:
non spetta all’accusa di dover provare la colpevolezza, ma grava
sull’imputato l’onere di dimostrare la propria innocenza. Così è stato
per l’uso dispiegato delle imputazioni di devastazione e saccheggio,
della ripresa dei reati associativi, dell’utilizzo dell’articolo 1 nei
confronti dei soggetti ritenuti dalle questure “socialmente pericolosi”.
Arrivato in sede processuale, dopo essersi sfilato quando il processo
perdeva di visibilità, Fiordalisi ritorna per calcare il palcoscenico
mediatico con la propria requisitoria. E qui tira fuori dal cilindro un
doppio livello. A fronte della non sostenibilità delle sue accuse,
chiede da un lato condanne pesantissime, tentando di confermare il suo
grottesco castello accusatorio; dall’altro, cerca di mercanteggiare la
sua posizione con il giudice offrendo un compromesso, cioè concedergli
la non totale infondatezza del suo teorema e riconoscendo che – anche
se non costituissero un’associazione sovversiva – i suoi imputati sono
comunque socialmente pericolosi, dunque da controllare. Se
sospettassimo che Fiordalisi fosse un attento lettore di Philip Dick,
potremmo pensare che ha cercato di riprodurne le dimensioni paranoiche
della sua preveggenza fantascientifica. Più banalmente, questo processo
si pone in continuità – secondo elemento da evidenziare – con quel
paradigma del controllo preventivo che ormai è il dispositivo di guerra
a bassa intensità dichiarato ai movimenti.
Terzo elemento, infine.
Non solo il teorema di Fiordalisi è completamente costruito attraverso
le intercettazioni telefoniche, ma il pubblico ministero nella sua
requisitoria ha esplicitamente dichiarato di vedere dietro all’utilizzo
dei mezzi di comunicazione telematici il nascondersi di pericolose
forme di cospirazione. Ad essere messa sotto accusa è quindi quella
stessa capacità cooperativa, relazionale e comunicativa che sta alla
base delle forme di produzione contemporanee.
Per combattere
adeguatamente i nuovi dispositivo di controllo è necessario
comprenderle, cogliendo anche i punti di discontinuità con le
rappresentazioni classiche della repressione. Laddove l’espressione
moltitudinaria e le lotte del lavoro vivo hanno messo in crisi le forme
tradizionali di governo, pena e disciplinamento, queste sono costrette
a riconfigurarsi.
Il nuovo scenario, cioè il mutamento del sistema
penale all’interno dei processi di governance, non è né meglio né
peggio di quello precedente: è semplicemente differente. Le misure del
controllo preventivo, che si nutrono della costruzione della figura del
“socialmente pericoloso”, intervengono per tentare di rispondere alla
forza dei movimenti, alla ricchezza dell’autorganizzazione e alle
possibilità di liberazione della cooperazione sociale.
Se un arco
garantista esiste, è proprio qua che deve intervenire: non solo a
fronte delle eclatanti e spettacolari operazioni di carcerazione, non
solo contro le folli condanne che si accumulano su chi dissente, ma
anche per garantire l’agibilità politica degli attivisti. È questa che
il paradigma della prevenzione vuole innanzitutto colpire. Da parte
nostra, saremo per le strade di Cosenza sabato 2 febbraio, portando
quella stessa determinazione che ci ha accompagnato a Genova insieme ad
altre 100.000 persone. Soprattutto, continueremo con la gioia di sempre
i nostri percorsi nelle università e con i precari, nei centri sociali
e nella costruzione di spazio pubblico, contro la guerra e i
dispositivi securitari. Perché è la continuazione dei processi di
liberazione l’unico modo per lottare contro i processi costruiti sui
teoremi.
This entry was posted in movimento e manifestazioni. Bookmark the permalink.