Negro di merda? “Generica antipatia!”

Hanno proprio ragione i magistrati e i politici milanesi secondo cui
massacrare una persona chiamandolo «negro di merda» non è un atto di
razzismo. Infatti hanno dalla loro la più autorevole giurisprudenza del
nostro paese: un paio di anni or sono, la Corte di Cassazione
sentenziò, infatti, che «l’espressione ‘sporco negro’» – pronunciata da
un italiano mentre aggredisce persone di colore alle quali provoca
serie lesioni – non denota, di per sé, l’intento discriminatorio e
razzista di chi la pronuncia perché potrebbe anche essere una
manifestazione di ‘generica antipatia, insofferenza o rifiuto’ per chi
appartiene a una razza diversa».

Immagino che la suddetta preclara
giurisprudenza possa applicarsi anche a espressioni affini come «negro
di merda». Quindi, «nessuna aggravante». In effetti, i due assassini di
Milano hanno fatto sapere che avrebbero fatto lo stesso anche se il
loro bersaglio fosse stato bianco e questo, secondo loro, dovrebbe
rassicurarci (mi viene in mente la signora con bambina che allo stadio
faceva «buuu» ai giocatori di colore e, alle mie rimostranze, rispose
che lo faceva pure ai bianchi. Come se una schifezza ne scusasse
un’altra). Ma loro almeno lo fanno per proteggersi – e comunque, per
fortuna, manca la conferma empirica. Quelli che davvero non hanno
vergogna sono quelli che nelle istituzioni e nei media gli tengono
bordone. Io infatti ero convinto che «generica antipatia, insofferenza
o rifiuto per chi appartiene a una razza diversa» fosse appunto una
perfetta definizione del razzismo: un atteggiamento mentale e
culturale, che può o meno produrre altri effetti criminosi ma è già un
orrore in sé. Per aver definito «negro di merda» un giocatore
avversario, il commissario tecnico della nazionale spagnola si beccò
una meritata bufera di accuse di razzismo. Si vede che certe
espressioni smettono di essere razziste quando alle parole si
accompagnano le mazzate.

La strategia discorsiva è la stessa seguita
dal tribunale californiano nel caso Rodney King (quello che scatenò la
rivolta di Los Angeles): suddividere un evento unitario in frammenti
distinti in modo da separarne causa ed effetto e renderlo
incomprensibile. In questo caso, le botte e le parole non fanno più
parte di un medesimo processo, ma sono due cose separate e senza
relazione fra loro: non danno le botte perché la vittima è comunque ai
loro occhi uno «sporco negro», ma da una parte hanno verso di lui una
«generica antipatia» e dall’altra lo ammazzano, però l’una cosa con
l’altra non c’entra. Se vogliamo, su tragica piccola scala, questa è la
logica che presiede la separazione fra le leggi razziali e il fascismo
rivendicata dal sindaco di Roma e dai suoi seguaci: il regime cacciava
i bambini dalle scuole e aiutava i nazisti a sterminarli, ma non perché
era fascista e quindi razzista, ma per una mera aberrazione. Staccato
dalle sue conseguenze materiali, insomma, il razzismo diventa una cosa
nebulosa e astratta, che uno può negare e persino condannare,
continuando a praticarlo.

Questa mi pare anche la debolezza dell’«
antifascismo» dichiarato da Fini: se davvero ci riconosciamo nei valori
della Resistenza e della Costituzione, allora sarà il caso di metterli
in pratica, e di smettere di discriminare e schedare i rom, cacciare
gli immigrati, considerare aggravante la clandestinità , praticare
politiche che colpiscono sistematicamente i più deboli e più marginali.
Cioè: ricomponiamo parole e fatti, ricomponiamo i proclami di
antirazzismo con pratiche antirazziste, egualitarie, civili – il
contrario di quelle per le quali la commissione europea ha appena
ribadito la condanna al nostro governo (contro quello che avevano
proclamato Maroni e i tg). Invece facciamo esattamente il contrario:
separiamo le parole dai fatti che ne conseguono, e ci serviamo di
questa scissione per attenuare la gravità di un assassinio, o per
prendersi patenti di democraticità senza bisogno di fare una politica
democratica. La parola chiave del razzismo nostrano è «ma»: «io non
sono razzista ma…». Io non sono razzista, ma quelli i biscotti li
avevano presi. Io non sono razzista, ma i rom rubano. Il documento
degli «scienziati» fascisti sulla razza, almeno, proclamava che era
l’ora che gli italiani si proclamassero «francamente» razzisti. Adesso,
noi italiani brava gente ci vergogniamo del nostro razzismo al punto da
negarlo in faccia all’evidenza – e proprio questa negazione ci permette
di continuare a praticarlo in forme sempre più violente.

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