8 MARZO 2007. CHI E’ DENTRO FA FESTA, CHI E’ FUORI E’ SOLA

 

Sono felice. Mi sveglio presto questa mattina e, con un buon umore e un sorriso stampato in volto, scendo giù sotto casa a comperare il giornale. Prima di uscire, saluto Amelia, la mia anziana vicina di casa che gia alle nove di mattina è sulle scalinate a pulire e a passare lo straccio. Le do gli auguri e lei con un sorriso dolce ma un po’ amaro mi risponde con un tiepido grazie. Beh, forse nemmeno si ricorda che oggi è l’8 Marzo, la festa della donna.

 Vado in edicola a passo svelto e compro i miei soliti quotidiani. A pagina 16 della Repubblica, dedicata interamente alla giornata internazionale delle donne, un articolo firmato da Maria Novella De Luca recita così : Donne in carriera, poche e senza figli. Mah, resto perplesso. Prendo  il Manifesto. A pagina sette un articolo di Antonio Sciotto ha questo titolo: Lavoratrici, infortuni in crescita. Stessa sensazione.

Rifletto un po’. Non mi pare che l’8 marzo sia propriamente una festa. Nel 1908 a New York, circa 130 operaie morirono in un rogo nello stabilimento Cotton, durante uno sciopero di protesta contro le dure condizioni di lavoro, contro i licenziamenti improvvisi che lasciavano sul lastrico le loro famiglie. Il proprietario della fabbrica aveva, chissà pure per quale motivo, bloccato le uscite e così per le donne non ci fu scampo alle fiamme. Nel 1910 Rosa Luxembourg propose nell’Internazionale socialista la data dell’8 marzo come giornata della donna, per far riflettere sulle condizioni di vita a cui la donna era costretta in quegli anni, senza lavoro, senza diritti e con una invisibilità enorme di fronte alla classe dirigente politica dei Paesi. Non so attribuire a quale dei due eventi storici si deve l’istituzione mondiale della data dell’8 Marzo, ma di certo essa non è una festa, ma una data per riflettere sui diritti e le libertà al femminile.

Assopito nei miei pensieri, con i giornali sotto braccio e una sigaretta in bocca, faccio un giro per le strade nel quartiere. C’è un via vai continuo di ragazze e donne con mazzi e mazzolini di mimose tra le mani, vetrine agghindate a festa con prodotti pubblicizzati per questa ricorrenza, sui muri ci sono manifesti di serate e feste in discoteca o pub a tema, con ospiti maschili da streaptese o provenienti dalla Premiata Forneria De Filippi-Grande Fratello. Comincio seriamente ad irritarmi.

Torno a casa un po’ deluso e mi siedo in salotto. Sul tavolo mamma mi ha lasciato un biglietto:” Sono a lavoro. Torno stasera, ma riesco subito che vado con Elena e Mariella dal Joice Club. “ E’ troppo. Ma può essere che nessuno sappia dell’8 Marzo, del forte valore che ha? Non ci posso credere che tutto si sia banalizzato a fiorellini, cioccolatini e dolcetti, serate in discoteca. E poi, può essere che il problema femminile di oggi si sia soltanto ridotto alla richiesta di più diritti nel campo lavorativo? Come se tutte le donne lavorassino. E quelle che sono a casa senza lavoro, disoccupate? E quelle che una casa neanche ce l’hanno? E quelle che sono costrette a non lavorare perchè devono tenere i tanti figli a casa? Insomma, chi si occupa delle donne emarginate, invisibili?  E’ pur la loro festa oggi.

Accendo la Tv. Il Presidente della Repubblica Napoletano in merito alla ricorrenza dirà pur qualcosa di universale, che sappia abbracciare tutto il mondo dei problemi femminili, dalla violenza alle donne, alla parità di diritti civili e lavorativi, alla disoccupazione in rosa, alle senza tetto italiane. No, invece no. Mi sbagliavo. Nessun accenno alla povertà femminile, nessuna parola per coloro che sono più fortemente disagiate e bisognose. Ha però parole per il mondo politico che vede una esigua minoranza femminile in parlamento e incentra buona parte del suo discorso sulle sparute pattuglie di elette alle Camere.

Nessuno, nessuno parla delle donne. Quelle vere. Quelle che combattono tutti i giorni contro miseria, povertà e fame. Che lottano quotidianamente per una casa, per una vita dignitosa. Tutti i media, tutti, seguono il filone del nostro Presidente della Repubblica e indicano soltanto una parte dei problemi femminili. Decido allora in quel momento di partire e raccontare una storia diversa. Destinazione Napoli.

Ricordo che, qualche estate fa, avevo con un mio caro amico, trascorso una indimenticabile settimana in giro per i quartieri meno turistici della città: Sanità, Quartieri Spagnoli, Granturco, Secondigliano. Parlavo con la gente, mi fermavo a scambiare quattro chiacchiere con gli anziani e i ragazzi per strada e ricordo di essere stato fulminato da una zona di Napoli: il Terzo Mondo. Con quei palazzi pieni di vita, quelle grida dei bambini che giocavano a pallone ovunque, persino dentro le gradinate degli stabili, le anziane che coprivano in qualche modo i nipoti che spacciavano all’interno del quartierie, giovani adolescenti che facevano l’amore dietro il giardinetto che costeggiava i primi due palazzoni. Insomma ero rimasto incantato da un mondo a parte, un mondo diverso, con mille problemi seri,con storie malate di disagio sociale, un mondo perennemente in equilibrio precario, senza certezze e sicurezze, dove le eccezioni non confermano mai la regola,  ma un mondo in fondo molto allegro. Il Terzo mondo, appunto.

Preparo di fretta e di furia tutto ciò che mi serve per un servizio, videocamera, registratore, carta e penna, qualche soldo e numero di telefono,zaino in spalla e si và.

Alla stazione Termini arrivo alle 11.00 circa. Il primo treno per Napoli è alle 12.20. Ho più di un ora per organizzarmi bene e per riordinare un pò le idee su quello che sto per fare. E mentre sono seduto sul marciapiede, di Piazza dei Cinquecento, con il naso all’in su a riflettere , da lontano vedo una anziana signora, malconcia e un po’ arruffata, spingere una carrozzella piena di oggetti. E’ bellissima.

Senza nemmeno pensarci su, mi alzo e vado con passo svelto verso di lei.

E’ alta più o meno un metro e settanta, capelli grigi e scompigliati racchiusi in una coda di cavallo, vestiti vari addosso, scarpe l’una diversa dall’altra, pochissime rughe in viso e tratti che nascondono benissimo un anzianità che non si direbbe. E’ una, volgarmente detta, barbona. La saluto con un ingombrante salve. Non mi guarda nemmeno, non alza la testa. Io insisto nel risalutarla, ma lei niente.

Allora le dico che volevo semplicemente darle gli auguri. Tutto ad un tratto, come se si fossi svegliata da un lunghissimo letargo, mi guarda, sorride splendidamente e mi dice: “Sono 10 anni che non parlo con un giovane bello come te”. Mi spiazza e non sapendo cosa dirle, provo a giocarmi la carta della verità. La dico che avrei intenzione di scrivere un articolo sui problemi delle donne dimenticate, quelle invisibili, che mi stavo dirigendo in un quartiere popolare a Napoli ma che ero rimasto colpito da lei; volevo quindi semplicemente farle un po di domande per poter poi rielaborare un testo critico verso la società e le sue dimenticanze.

Lei mi guarda, mi chiede una sigaretta. Gliela do subito, incuriosito. Poi mi dice : ”dimmi, iniziamo”. Sono sempre più spiazzato ma cerco di non farmi prendere troppo dalle sensazioni. E’ la mia prima intervista ad una clochard. Ci spostiamo leggermente dal caos di Termini, ci sediamo su una panchina e inizia qui il suo racconto. Si chiama Roberta Solani, è nata a Paliano, in Ciociaria ben 78 anni fa. Quando inizia a raccontarsi è un fiume in piena,non si arresta più. A 14 anni diventa staffetta partigiana, finita la guerra si iscrive al Liceo Scientifico di Frosinone, dove si diploma con facilità. Inizia a lavorare come impiegata nelle poste del capoluogo e poco dopo si sposa con un uomo venuto a Frosinone dalla lontana Sicilia per motivi di lavoro. Fanno due bambini e la sua vita sembra scorrere tranquilla fino all’età dei 35 anni. Ad un certo punto Roberta inizia a sembrare un po’ restia nel raccontare i particolari. Mi dice che in seguito ad un grosso problema in famiglia è costretta ad abbandonare il marito e parte per Roma con i due figli. Parla freddamente e non mi va di chiedergli che grossi problemi abbia avuto, anche se la curiosità e’ grande. Continua a dirmi che da allora non ha mai più rivisto suo marito. Per lei inizia, mi dice, un periodo di grosso stress, dovuto al problema di trovare una sistemazione nella Capitale, di mantenere da sola i due ragazzi, di crescerli in modo sano, con uno stipendio da impiegata. Era nel ’72, quando una volante della polizia la investe involontariamente, perché all’inseguimento di alcuni delinquenti, e perde l’uso completo del piede sinistro. In effetti non avevo fatto caso che Roberta, camminava in un modo leggermente storpiato verso sinistra. Inizia sempre più spesso a deglutire e a far fatica ad andar avanti nel suo racconto. Io le dico che se vuole puo bastare cosi ricordare il passato e potremmo parlare di altro. Lei scuote la testa e continua. Da quel momento perde il posto di lavoro in seguito alle cure mediche che deve fare e lo Stato ci mette quasi un anno a riconoscerli l’invalidità civile e a passarli una pensione fissa di mantenimento. In quell’anno che trascorre per andare avanti è costretta a indebitarsi per pagare l’affitto. Roberta china la testa, quasi come se stesse per dire una cosa terribilmente cupa, e con voce fievole mi dice che per due mesi andava persino a casa di ex colleghi per prostituirsi. Faceva con loro l’amore per guadagnarsi dei soldi, per il mantenimento dei suoi due figli. Inizio a sciogliermi letteralmente. Lei vuole continuare il suo racconto e con la mano mi fa cenno che vorrebbe un'altra sigaretta. Se l’accenda e ricomincia a parlare. Appena ha avuto questa pensione scopre che con quei soldi non ce la fa a tirare avanti per tutta la famiglia. La situazione è tragica ma è costretta a mandare i figli a casa dell’anziana madre in campagna, almeno fino a quando non avrebbe trovato un nuovo  lavoro che non l’affaticasse troppo con il piede. Nel 77 i ragazzi muoiono entrambi di tubercolosi. Per Roberta è un duro colpo, troppo duro. Soprattutto perché era consapevole della malattia dei figli, ma sia lei che la madre non avevano soldi a sufficienza per una cura ottimale che gli potesse guarire. Così all’età di 43 anni si ritrova, senza marito, senza figli, con una madre moribonda e anziana, con un forte handicap dovuto per una colpa altrui, senza lavoro per incapacità di fisico, con un affitto da pagare, e con pochi spiccioli per mangiare, a Roma.

Nell’84 con la pensione di invalidità non riesce più a pagare l’affitto così che il proprietario dello stabile la caccia per morosità. Mi dice che sono stati inutili gli appelli scritti e le lettere al comune di Roma, implorando aiuto e ponendo il suo caso come esempio di mal governo sociale. Da una busta mi tira fuori un mucchio di carte invecchiate. Sono le lettere, i documenti e tutto ciò che ha scritto al comune e al governo per chiedere giustizia sul suo caso. Nulla, scuote la testa e mi dice che nessuno, niente e nessuno la ascoltava. Era solo una povera donna  ciociara cinquantenne, zoppa, senza marito, senza ora più nemmeno la madre, senza figli, senza casa, senza futuro.

Sono più di vent’anni che ormai vive per strada. Lei, che ha potuto studiare, diplomata in un liceo scientifico, amante della letteratura e della poesia, mai alcolizzata, ne drogata, che non ha mai rubato nulla, che ha sempre pagato tutte le tasse fino a che ha potuto. Da 15 anni ha smesso di prendere anche le 250 euro che ora gli spetterebbero come indennizzo all’handicap che ha. Le chiedo cme mai, che almeno con quelle poteva tirare a campare certamente meglio che senza. Lei mi dice che lo fa per protesta, che non ne vuole sentir parlare di aiuti da questo Stato che non ha fatto altro che rovinargli la vita,che le ha distrutto l’esistenza, a lei e ai suoi figli. La guardo. La vedo innalzarsi ai miei occhi. Non mi rendo ancora conto per bene della sua situazione. Ha attraversato la vita con immense difficoltà, a preso batoste a non finire, ha combattuto battaglie più grandi di lei, eppure ha ancora la forza di lottare e addirittura di prendere in mano le redini del gioco. Sfida lo Stato e con la sua silenziosa protesta vive la sua esistenza in pace. Nel carretto che l’accompagna sempre ovunque non ha oggetti della sua adolescenza, tranne i libri della sua giovinezza, , da Pirandello a Verga, da Moliere a Ungaretti. E mi dice che si ferma spesso a Villa Ada a rileggere gli atti d’accusa e di satira che Moliere descrive nelle sue opere. Roberta vive di elemosina, mangia alla Caritas, dorme per strada avvolta da cartoni e coperte alla buona in un angolo di via Cavour. Mi confessa che da anni sta scrivendo un diario, della sua vita, un sorte di testamento delle sofferenze di donna che ha dovuto patire.

Rimango avvolto da quel tiepido tepore che è lo stupirsi ancora: questa donna ha tutti i meriti che si possano attribuire a quelle persone che fanno grande la propria vita, da stimare e plaudire.

Per me si è fatto tardi. La guardo fisso negli occhi. Le prendo la mano sinistra e le do un in bocca al lupo per il resto della sua vita, promettendole che avrei scritto su di lei e fatto sicuramente presente al comune di Roma tutto ciò che mi ha raccontato. Lei mi dice:” E’ un mondo difficile, soprattutto se sei donna e vecchia come me. Ma diventa più difficile ancora se ti abbatti e non provi a resistere. La mia fortuna di donna è che ho resistito a tutto, sto resistendo e resisterò sempre.”

La guardo, ha occhi pieni di orgoglio, pieni di vita. Ha subito troppo ingenti maledizioni dalla vita, eppure lei è ancora li, con la vita dentro. Che meraviglia. Eppure per lei oggi non c’è alcuna festa.

Corro a prendere il treno per Napoli, ma dentro il vagone, seduto e gia in viaggio per la mia meta campana, rifletto su Roberta e sul tema femminile delle persone che hanno avuto il suo stesso percorso problematico. Non smetto di chiedermi come possa essere lo Stato, le istituzioni, così lontane e inesistenti per donne come lei, come sicuramente altre centinaia e centinaia nel nostro Paese. Come si possono dimenticare i giornali e i media di storie come questa? Perché la stragrande dei giornalisti non si occupano di questi problemi? Perché oggi che è l’8 Marzo nessuno pensa alle donne più deboli?

Penso che con Roberta nella testa anche il mio viaggio a Napoli sia,in paragone, minoritario.

Al Terzo mondo conosco tre famiglie, mi colpiscono molto , ma in testa ho sempre quel sorriso sprezzante dell’anziana romana.

Anna, 46 anni, tre figli a carico e marito operaio che lavora a Bagnoli. I figli hanno 3, 4 e 10 anni. Il marito attacca a lavoro alle 8 e stacca alle 19.00, tutti i giorni tranne la domenica. Guadagna 1100 euro. Così Anna è costretta a stare a casa con i bambini, da sola, tutti i giorni della settimana. Vorrebbe lavorare in una palestra di fitness, ma non può permettersi di lasciare i figli soli a casa. Vorrebbe lavorare, ma non può. Per lei non esiste nessuna festa oggi.

Sara, 23 anni, una figlia di 1 anno e mezzo. Divorziata, problemi di droga alle spalle, e ora convivente con un altro ragazzo, che lavora come cameriere in un ristorante a Piazza Dante. La casa l’hanno occupata, perché non potevano permettersi di affittarla, con un reddito in due di 800 euro mensili. Il ragazzo lavora dalle 11 di mattina fino a chiusura ristorante, di solito l’1 di notte. Lei deve badare alla piccola Cristina, non può permettersi di mandare la bimba in un asilo nido. Non ha i soldi. Ha solo 23 anni e mi dice che si sente già abbandonata da tutti. Passerà l’8 Marzo a casa, da sola, tristemente. Per lei Nessuna festa.

Rita, 37anni, due figlie di 12 e 14 anni, senza marito. Lavora in un call center della Wind, prende per 8 ore di lavoro giornaliere circa 900 euro al mese. Mi dice che la metà se ne va per l’affitto. “ Con 400 euro, le chiedo,si può vivere in 3?”. Infatti ha l’allaccio alla luce abusivo, così come il gas e l’acqua che non paga da anni ormai. E così cerca di arrivare fino a fine mese. Ma è una vera lotta. La loro casa è formata da un bagnetto, una camera per le ragazzine e una cucina/salotto dove lei dorme sul divano letto. Le ragazzine quando lei è lavoro devono badare a se stesse sole, a pranzo e dopo pranzo. Neanche per queste tre donne non c’è festa.

Così come non c’è nessuna festa per le oltre 500 bambine, donne, operaie che sono state torturate, ammazzate, fatte sparire a Ciudad Juarez in Messico, non esiste nessuna festa per Karima, lapidata per atti impuri in Arabia Saudita, non si festeggia nemmeno per 400 donne della Burkina Faso messe al rogo perché accusate di essere mangiatrici d’anime, e nemmeno c’è festa in Birmania, dove 4137 donne sono costrette ai lavori forzati e stuprate ogni giorno.

Tra i campi profughi la festa della donna non è festeggiata, anche se l’80% nei campi sono donne e bambine; e che dire poi dei 140 milioni  di casi di mutilazioni genitali e non  femminili; e delle 700 milioni di donne che soffrono la fame e denutrite.

Caro Presidente della Repubblica, caro Ministro delle Pari opportunità, finitela di imbandire feste nei palazzi di potere e di auspicare che le donne in Parlamento siano rappresentate giustamente. Finitela per piacere. L’8 marzo potevate passarlo a Roma Termini con Roberta, al Terzo Mondo a Napoli con Rita, Sara e Anna, o andare a vedere che succede in Messico, in Birmania, in Burkina Faso, in Arabia Saudita; o magari a prendervi le botte insieme a quelle centinaia di donne che stamattina hanno manifestato in Iran e sono state duramente caricate dalla polizia. Ecco potevate andare li.

Invece avete preferito stare nel vostro bel Palazzo, fare discorsi retorici e pieni di populismo partitico.  E Fuori le donne hanno bisogno di diritti. Diritto ad una vita dignitosa. Diritto al Lavoro. Diritto alla Casa. Diritto alla parità culturale. Diritto soprattutto a no essere considerate solo come oggetti, ma persone.

Oggi, care Ministre, politici, Presidenti e quant’altro la festa ve la fate tra di voi.

Io rimango a Napoli, ospite di Sara.

 

 

Luca Profenna

Sono felice. Mi sveglio presto questa mattina e, con un buon umore e un sorriso stampato in volto, scendo giù sotto casa a comperare il giornale. Prima di uscire, saluto Amelia, la mia anziana vicina di casa che gia alle nove di mattina è sulle scalinate a pulire e a passare lo straccio. Le do gli auguri e lei con un sorriso dolce ma un po’ amaro mi risponde con un tiepido grazie. Beh, forse nemmeno si ricorda che oggi è l’8 Marzo, la festa della donna.

 Vado in edicola a passo svelto e compro i miei soliti quotidiani. A pagina 16 della Repubblica, dedicata interamente alla giornata internazionale delle donne, un articolo firmato da Maria Novella De Luca recita così : Donne in carriera, poche e senza figli. Mah, resto perplesso. Prendo  il Manifesto. A pagina sette un articolo di Antonio Sciotto ha questo titolo: Lavoratrici, infortuni in crescita. Stessa sensazione.

Rifletto un po’. Non mi pare che l’8 marzo sia propriamente una festa. Nel 1908 a New York, circa 130 operaie morirono in un rogo nello stabilimento Cotton, durante uno sciopero di protesta contro le dure condizioni di lavoro, contro i licenziamenti improvvisi che lasciavano sul lastrico le loro famiglie. Il proprietario della fabbrica aveva, chissà pure per quale motivo, bloccato le uscite e così per le donne non ci fu scampo alle fiamme. Nel 1910 Rosa Luxembourg propose nell’Internazionale socialista la data dell’8 marzo come giornata della donna, per far riflettere sulle condizioni di vita a cui la donna era costretta in quegli anni, senza lavoro, senza diritti e con una invisibilità enorme di fronte alla classe dirigente politica dei Paesi. Non so attribuire a quale dei due eventi storici si deve l’istituzione mondiale della data dell’8 Marzo, ma di certo essa non è una festa, ma una data per riflettere sui diritti e le libertà al femminile.

Assopito nei miei pensieri, con i giornali sotto braccio e una sigaretta in bocca, faccio un giro per le strade nel quartiere. C’è un via vai continuo di ragazze e donne con mazzi e mazzolini di mimose tra le mani, vetrine agghindate a festa con prodotti pubblicizzati per questa ricorrenza, sui muri ci sono manifesti di serate e feste in discoteca o pub a tema, con ospiti maschili da streaptese o provenienti dalla Premiata Forneria De Filippi-Grande Fratello. Comincio seriamente ad irritarmi.

Torno a casa un po’ deluso e mi siedo in salotto. Sul tavolo mamma mi ha lasciato un biglietto:” Sono a lavoro. Torno stasera, ma riesco subito che vado con Elena e Mariella dal Joice Club. “ E’ troppo. Ma può essere che nessuno sappia dell’8 Marzo, del forte valore che ha? Non ci posso credere che tutto si sia banalizzato a fiorellini, cioccolatini e dolcetti, serate in discoteca. E poi, può essere che il problema femminile di oggi si sia soltanto ridotto alla richiesta di più diritti nel campo lavorativo? Come se tutte le donne lavorassino. E quelle che sono a casa senza lavoro, disoccupate? E quelle che una casa neanche ce l’hanno? E quelle che sono costrette a non lavorare perchè devono tenere i tanti figli a casa? Insomma, chi si occupa delle donne emarginate, invisibili?  E’ pur la loro festa oggi.

Accendo la Tv. Il Presidente della Repubblica Napoletano in merito alla ricorrenza dirà pur qualcosa di universale, che sappia abbracciare tutto il mondo dei problemi femminili, dalla violenza alle donne, alla parità di diritti civili e lavorativi, alla disoccupazione in rosa, alle senza tetto italiane. No, invece no. Mi sbagliavo. Nessun accenno alla povertà femminile, nessuna parola per coloro che sono più fortemente disagiate e bisognose. Ha però parole per il mondo politico che vede una esigua minoranza femminile in parlamento e incentra buona parte del suo discorso sulle sparute pattuglie di elette alle Camere.

Nessuno, nessuno parla delle donne. Quelle vere. Quelle che combattono tutti i giorni contro miseria, povertà e fame. Che lottano quotidianamente per una casa, per una vita dignitosa. Tutti i media, tutti, seguono il filone del nostro Presidente della Repubblica e indicano soltanto una parte dei problemi femminili. Decido allora in quel momento di partire e raccontare una storia diversa. Destinazione Napoli.

Ricordo che, qualche estate fa, avevo con un mio caro amico, trascorso una indimenticabile settimana in giro per i quartieri meno turistici della città: Sanità, Quartieri Spagnoli, Granturco, Secondigliano. Parlavo con la gente, mi fermavo a scambiare quattro chiacchiere con gli anziani e i ragazzi per strada e ricordo di essere stato fulminato da una zona di Napoli: il Terzo Mondo. Con quei palazzi pieni di vita, quelle grida dei bambini che giocavano a pallone ovunque, persino dentro le gradinate degli stabili, le anziane che coprivano in qualche modo i nipoti che spacciavano all’interno del quartierie, giovani adolescenti che facevano l’amore dietro il giardinetto che costeggiava i primi due palazzoni. Insomma ero rimasto incantato da un mondo a parte, un mondo diverso, con mille problemi seri,con storie malate di disagio sociale, un mondo perennemente in equilibrio precario, senza certezze e sicurezze, dove le eccezioni non confermano mai la regola,  ma un mondo in fondo molto allegro. Il Terzo mondo, appunto.

Preparo di fretta e di furia tutto ciò che mi serve per un servizio, videocamera, registratore, carta e penna, qualche soldo e numero di telefono,zaino in spalla e si và.

Alla stazione Termini arrivo alle 11.00 circa. Il primo treno per Napoli è alle 12.20. Ho più di un ora per organizzarmi bene e per riordinare un pò le idee su quello che sto per fare. E mentre sono seduto sul marciapiede, di Piazza dei Cinquecento, con il naso all’in su a riflettere , da lontano vedo una anziana signora, malconcia e un po’ arruffata, spingere una carrozzella piena di oggetti. E’ bellissima.

Senza nemmeno pensarci su, mi alzo e vado con passo svelto verso di lei.

E’ alta più o meno un metro e settanta, capelli grigi e scompigliati racchiusi in una coda di cavallo, vestiti vari addosso, scarpe l’una diversa dall’altra, pochissime rughe in viso e tratti che nascondono benissimo un anzianità che non si direbbe. E’ una, volgarmente detta, barbona. La saluto con un ingombrante salve. Non mi guarda nemmeno, non alza la testa. Io insisto nel risalutarla, ma lei niente.

Allora le dico che volevo semplicemente darle gli auguri. Tutto ad un tratto, come se si fossi svegliata da un lunghissimo letargo, mi guarda, sorride splendidamente e mi dice: “Sono 10 anni che non parlo con un giovane bello come te”. Mi spiazza e non sapendo cosa dirle, provo a giocarmi la carta della verità. La dico che avrei intenzione di scrivere un articolo sui problemi delle donne dimenticate, quelle invisibili, che mi stavo dirigendo in un quartiere popolare a Napoli ma che ero rimasto colpito da lei; volevo quindi semplicemente farle un po di domande per poter poi rielaborare un testo critico verso la società e le sue dimenticanze.

Lei mi guarda, mi chiede una sigaretta. Gliela do subito, incuriosito. Poi mi dice : ”dimmi, iniziamo”. Sono sempre più spiazzato ma cerco di non farmi prendere troppo dalle sensazioni. E’ la mia prima intervista ad una clochard. Ci spostiamo leggermente dal caos di Termini, ci sediamo su una panchina e inizia qui il suo racconto. Si chiama Roberta Solani, è nata a Paliano, in Ciociaria ben 78 anni fa. Quando inizia a raccontarsi è un fiume in piena,non si arresta più. A 14 anni diventa staffetta partigiana, finita la guerra si iscrive al Liceo Scientifico di Frosinone, dove si diploma con facilità. Inizia a lavorare come impiegata nelle poste del capoluogo e poco dopo si sposa con un uomo venuto a Frosinone dalla lontana Sicilia per motivi di lavoro. Fanno due bambini e la sua vita sembra scorrere tranquilla fino all’età dei 35 anni. Ad un certo punto Roberta inizia a sembrare un po’ restia nel raccontare i particolari. Mi dice che in seguito ad un grosso problema in famiglia è costretta ad abbandonare il marito e parte per Roma con i due figli. Parla freddamente e non mi va di chiedergli che grossi problemi abbia avuto, anche se la curiosità e’ grande. Continua a dirmi che da allora non ha mai più rivisto suo marito. Per lei inizia, mi dice, un periodo di grosso stress, dovuto al problema di trovare una sistemazione nella Capitale, di mantenere da sola i due ragazzi, di crescerli in modo sano, con uno stipendio da impiegata. Era nel ’72, quando una volante della polizia la investe involontariamente, perché all’inseguimento di alcuni delinquenti, e perde l’uso completo del piede sinistro. In effetti non avevo fatto caso che Roberta, camminava in un modo leggermente storpiato verso sinistra. Inizia sempre più spesso a deglutire e a far fatica ad andar avanti nel suo racconto. Io le dico che se vuole puo bastare cosi ricordare il passato e potremmo parlare di altro. Lei scuote la testa e continua. Da quel momento perde il posto di lavoro in seguito alle cure mediche che deve fare e lo Stato ci mette quasi un anno a riconoscerli l’invalidità civile e a passarli una pensione fissa di mantenimento. In quell’anno che trascorre per andare avanti è costretta a indebitarsi per pagare l’affitto. Roberta china la testa, quasi come se stesse per dire una cosa terribilmente cupa, e con voce fievole mi dice che per due mesi andava persino a casa di ex colleghi per prostituirsi. Faceva con loro l’amore per guadagnarsi dei soldi, per il mantenimento dei suoi due figli. Inizio a sciogliermi letteralmente. Lei vuole continuare il suo racconto e con la mano mi fa cenno che vorrebbe un'altra sigaretta. Se l’accenda e ricomincia a parlare. Appena ha avuto questa pensione scopre che con quei soldi non ce la fa a tirare avanti per tutta la famiglia. La situazione è tragica ma è costretta a mandare i figli a casa dell’anziana madre in campagna, almeno fino a quando non avrebbe trovato un nuovo  lavoro che non l’affaticasse troppo con il piede. Nel 77 i ragazzi muoiono entrambi di tubercolosi. Per Roberta è un duro colpo, troppo duro. Soprattutto perché era consapevole della malattia dei figli, ma sia lei che la madre non avevano soldi a sufficienza per una cura ottimale che gli potesse guarire. Così all’età di 43 anni si ritrova, senza marito, senza figli, con una madre moribonda e anziana, con un forte handicap dovuto per una colpa altrui, senza lavoro per incapacità di fisico, con un affitto da pagare, e con pochi spiccioli per mangiare, a Roma.

Nell’84 con la pensione di invalidità non riesce più a pagare l’affitto così che il proprietario dello stabile la caccia per morosità. Mi dice che sono stati inutili gli appelli scritti e le lettere al comune di Roma, implorando aiuto e ponendo il suo caso come esempio di mal governo sociale. Da una busta mi tira fuori un mucchio di carte invecchiate. Sono le lettere, i documenti e tutto ciò che ha scritto al comune e al governo per chiedere giustizia sul suo caso. Nulla, scuote la testa e mi dice che nessuno, niente e nessuno la ascoltava. Era solo una povera donna  ciociara cinquantenne, zoppa, senza marito, senza ora più nemmeno la madre, senza figli, senza casa, senza futuro.

Sono più di vent’anni che ormai vive per strada. Lei, che ha potuto studiare, diplomata in un liceo scientifico, amante della letteratura e della poesia, mai alcolizzata, ne drogata, che non ha mai rubato nulla, che ha sempre pagato tutte le tasse fino a che ha potuto. Da 15 anni ha smesso di prendere anche le 250 euro che ora gli spetterebbero come indennizzo all’handicap che ha. Le chiedo cme mai, che almeno con quelle poteva tirare a campare certamente meglio che senza. Lei mi dice che lo fa per protesta, che non ne vuole sentir parlare di aiuti da questo Stato che non ha fatto altro che rovinargli la vita,che le ha distrutto l’esistenza, a lei e ai suoi figli. La guardo. La vedo innalzarsi ai miei occhi. Non mi rendo ancora conto per bene della sua situazione. Ha attraversato la vita con immense difficoltà, a preso batoste a non finire, ha combattuto battaglie più grandi di lei, eppure ha ancora la forza di lottare e addirittura di prendere in mano le redini del gioco. Sfida lo Stato e con la sua silenziosa protesta vive la sua esistenza in pace. Nel carretto che l’accompagna sempre ovunque non ha oggetti della sua adolescenza, tranne i libri della sua giovinezza, , da Pirandello a Verga, da Moliere a Ungaretti. E mi dice che si ferma spesso a Villa Ada a rileggere gli atti d’accusa e di satira che Moliere descrive nelle sue opere. Roberta vive di elemosina, mangia alla Caritas, dorme per strada avvolta da cartoni e coperte alla buona in un angolo di via Cavour. Mi confessa che da anni sta scrivendo un diario, della sua vita, un sorte di testamento delle sofferenze di donna che ha dovuto patire.

Rimango avvolto da quel tiepido tepore che è lo stupirsi ancora: questa donna ha tutti i meriti che si possano attribuire a quelle persone che fanno grande la propria vita, da stimare e plaudire.

Per me si è fatto tardi. La guardo fisso negli occhi. Le prendo la mano sinistra e le do un in bocca al lupo per il resto della sua vita, promettendole che avrei scritto su di lei e fatto sicuramente presente al comune di Roma tutto ciò che mi ha raccontato. Lei mi dice:” E’ un mondo difficile, soprattutto se sei donna e vecchia come me. Ma diventa più difficile ancora se ti abbatti e non provi a resistere. La mia fortuna di donna è che ho resistito a tutto, sto resistendo e resisterò sempre.”

La guardo, ha occhi pieni di orgoglio, pieni di vita. Ha subito troppo ingenti maledizioni dalla vita, eppure lei è ancora li, con la vita dentro. Che meraviglia. Eppure per lei oggi non c’è alcuna festa.

Corro a prendere il treno per Napoli, ma dentro il vagone, seduto e gia in viaggio per la mia meta campana, rifletto su Roberta e sul tema femminile delle persone che hanno avuto il suo stesso percorso problematico. Non smetto di chiedermi come possa essere lo Stato, le istituzioni, così lontane e inesistenti per donne come lei, come sicuramente altre centinaia e centinaia nel nostro Paese. Come si possono dimenticare i giornali e i media di storie come questa? Perché la stragrande dei giornalisti non si occupano di questi problemi? Perché oggi che è l’8 Marzo nessuno pensa alle donne più deboli?

Penso che con Roberta nella testa anche il mio viaggio a Napoli sia,in paragone, minoritario.

Al Terzo mondo conosco tre famiglie, mi colpiscono molto , ma in testa ho sempre quel sorriso sprezzante dell’anziana romana.

Anna, 46 anni, tre figli a carico e marito operaio che lavora a Bagnoli. I figli hanno 3, 4 e 10 anni. Il marito attacca a lavoro alle 8 e stacca alle 19.00, tutti i giorni tranne la domenica. Guadagna 1100 euro. Così Anna è costretta a stare a casa con i bambini, da sola, tutti i giorni della settimana. Vorrebbe lavorare in una palestra di fitness, ma non può permettersi di lasciare i figli soli a casa. Vorrebbe lavorare, ma non può. Per lei non esiste nessuna festa oggi.

Sara, 23 anni, una figlia di 1 anno e mezzo. Divorziata, problemi di droga alle spalle, e ora convivente con un altro ragazzo, che lavora come cameriere in un ristorante a Piazza Dante. La casa l’hanno occupata, perché non potevano permettersi di affittarla, con un reddito in due di 800 euro mensili. Il ragazzo lavora dalle 11 di mattina fino a chiusura ristorante, di solito l’1 di notte. Lei deve badare alla piccola Cristina, non può permettersi di mandare la bimba in un asilo nido. Non ha i soldi. Ha solo 23 anni e mi dice che si sente già abbandonata da tutti. Passerà l’8 Marzo a casa, da sola, tristemente. Per lei Nessuna festa.

Rita, 37anni, due figlie di 12 e 14 anni, senza marito. Lavora in un call center della Wind, prende per 8 ore di lavoro giornaliere circa 900 euro al mese. Mi dice che la metà se ne va per l’affitto. “ Con 400 euro, le chiedo,si può vivere in 3?”. Infatti ha l’allaccio alla luce abusivo, così come il gas e l’acqua che non paga da anni ormai. E così cerca di arrivare fino a fine mese. Ma è una vera lotta. La loro casa è formata da un bagnetto, una camera per le ragazzine e una cucina/salotto dove lei dorme sul divano letto. Le ragazzine quando lei è lavoro devono badare a se stesse sole, a pranzo e dopo pranzo. Neanche per queste tre donne non c’è festa.

Così come non c’è nessuna festa per le oltre 500 bambine, donne, operaie che sono state torturate, ammazzate, fatte sparire a Ciudad Juarez in Messico, non esiste nessuna festa per Karima, lapidata per atti impuri in Arabia Saudita, non si festeggia nemmeno per 400 donne della Burkina Faso messe al rogo perché accusate di essere mangiatrici d’anime, e nemmeno c’è festa in Birmania, dove 4137 donne sono costrette ai lavori forzati e stuprate ogni giorno.

Tra i campi profughi la festa della donna non è festeggiata, anche se l’80% nei campi sono donne e bambine; e che dire poi dei 140 milioni  di casi di mutilazioni genitali e non  femminili; e delle 700 milioni di donne che soffrono la fame e denutrite.

Caro Presidente della Repubblica, caro Ministro delle Pari opportunità, finitela di imbandire feste nei palazzi di potere e di auspicare che le donne in Parlamento siano rappresentate giustamente. Finitela per piacere. L’8 marzo potevate passarlo a Roma Termini con Roberta, al Terzo Mondo a Napoli con Rita, Sara e Anna, o andare a vedere che succede in Messico, in Birmania, in Burkina Faso, in Arabia Saudita; o magari a prendervi le botte insieme a quelle centinaia di donne che stamattina hanno manifestato in Iran e sono state duramente caricate dalla polizia. Ecco potevate andare li.

Invece avete preferito stare nel vostro bel Palazzo, fare discorsi retorici e pieni di populismo partitico.  E Fuori le donne hanno bisogno di diritti. Diritto ad una vita dignitosa. Diritto al Lavoro. Diritto alla Casa. Diritto alla parità culturale. Diritto soprattutto a no essere considerate solo come oggetti, ma persone.

Oggi, care Ministre, politici, Presidenti e quant’altro la festa ve la fate tra di voi.

Io rimango a Napoli, ospite di Sara.

 

 

Luca Profenna

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One Response to 8 MARZO 2007. CHI E’ DENTRO FA FESTA, CHI E’ FUORI E’ SOLA

  1. MAttEO says:

    Lucaaaa..weeee..
    so Matteo di Foligno..non so se ti ricorderai..cmq..non sapevo che SAPEVI SCRIVERE..aha
    ammazza quanti pensieri..umh..troppi per me..non mi ci arriva il cervello!
    cmq..complimenti..bel sito Lu..
    a presto..domani se torna a “scuola”…ciao Anarchia

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