La vita rubata

L’estate sta finendo tra stucchevoli dispute sulla perdita di memoria di Walter Veltroni e sul ruolo della “pubblica opinione”, condotte da alcuni maître à penser che scrivono sui giornali. Un dibattito sulla irrancidita società italiana che, per paradosso, dichiara la crisi della coscienza etica e della cultura espressa da ciò che siamo abituati a chiamare “sinistra”, aggirandosi lontanissimo dai nodi tematici che andrebbero affrontati per risolverla. C’è, per esempio, qualcosa di particolarmente agghiacciante nell’accanimento con cui lo Stato si sforza, di questi tempi, di imporre la vita a Eluana Englaro. Ma inquieta, in generale, l’attenzione maniacale con cui il legislatore si è messo a seguire molti dei nostri atti più comuni e quotidiani allo scopo di preservarci in salute. Bisogna eliminare tutti i pretesti al pessimo vizio di fumare e di bere, al malcostume di ingrassare come a quello di distrarci mentre siamo alla guida dell’automobile. Mentre l’invecchiamento della popolazione si trasforma in problema da affidare agli studi statistici, a Bologna Sergio Cofferati, il più fedele custode, tra i sindaci italiani, del “discorso imperativo” contemporaneo – la pubblica istituzione come garanzia della salvezza del corpo e della sicurezza del cittadino – ha di recente proibito il ricorso al piercing nelle parti intime, la cui funzionalità “potrebbe essere compromessa”. “Meglio la morte della salute che ci è data in sorte”, ha scritto Deleuze nel 1990: l’amministrazione dell’esistenza, l’imposizione della sicurezza, si sono estese fino ad avere un ruolo centrale nell’economia politica del capitalismo contemporaneo e, con ciò, nello scorrere dei vari momenti della nostra esistenza. Come ha indicato Foucault, i sistemi della modernità devono obbligatoriamente includere, e a un tempo controllare, le forze vive e generatrici, nonché i dati biologici essenziali degli esseri umani. Non solo ogni atto, ma ogni singola definizione del campo dell’umano provoca oggi ricadute decisive sul piano politico, economico, sociale. E la riproduzione sta perfettamente al centro di tutto il processo: il corpo femminile comprende al suo stesso interno ciò che il capitalismo si costringe disperatamente a imitare e a regolare. Si prova a separare la funzione generativa dai corpi delle donne attraverso il ricorso alle biotecnologie, ovvero, viceversa, normandone e controllandone diversamente gli andamenti, a seconda di ogni diversa fase. Qualche settimana fa, a Londra, la signora Nicole Brewer, responsabile della Commissione pari opportunità e critiche di genere della Gran Bretagna, ha sostenuto che i congedi per maternità garantiti alle donne per legge finiscono per impedire loro di far carriera: “Bisogna ripensarci: la strada che per tanti anni abbiamo percorso e che ci ha portate a combattere per ottenere il diritto a stare a casa per occuparci dei nostri figli forse non è la strada più giusta”. In febbraio, a Napoli, latitudine differente della stessa vecchia Europa, un pubblico ministero era stato colto dal sospetto che l’aborto terapeutico a cui si era sottoposta una donna fosse irregolare e aveva perciò disposto un’ispezione dei carabinieri con tanto di sequestro del feto, più che mai “corpo del reato”. Il mese di settembre si aprirà con la discussione di una legge Finanziaria che, quest’anno, ha rischiato di veder cancellato l’assegno sociale, unica forma di reddito, nella vecchiaia, per molte casalinghe italiane impossibilitate a dimostrare il proprio ruolo “produttivo”. La difformità degli esempi forniti non esclude, volendo, di cogliere l’unico disegno sottostante e la sua trama particolare: il presente ha operato una decostruzione radicale degli assunti principali della teoria politica classica, scombinando il meccanismo di inclusione/esclusione su cui si fondano alcuni concetti cardine nonché, storicamente, i rapporti tra i generi (cittadinanza; produttività; riproduzione; pubblico e privato). Nuove, sottili, imprendibili, linee guida impongono (consigliano/sconsigliano, secondo il bisogno e il caso) di avere oppure non avere figli. Lo scopo è quello di minare nel profondo la potenza generativa (vale a dire l’autodeterminazione) delle donne. La sfera riproduttiva e sessuale è oggi riconosciuta come luogo fondamentale di produzione e di circolazione del potere e in quanto tale va precisamente governata. D’altro lato, il lavoro produttivo viene incentivato con convinzione, prescindendo sempre più dal genere del soggetto.
L’invenzione della precarietà ne accresce efficacemente il desiderio, trasformandosi il lavoro in oggetto oscuro e labile, con suggestiva cesura e conseguente risultato – il soggetto è costretto a inseguirlo e ad anelarlo costantemente – rispetto ad altre ere, anche recenti. E’ dunque estremamente importante perché fa ordine quanto scrive Rosi Braidotti in un libro da poco pubblicato Trasposizioni. Sull’etica nomade (Luca Sossella editore): “Le società industriali producono una proliferazione delle differenze per assicurarsi il massimo profitto (…) E’ così saltato il rapporto dialettico tradizionale con i referenti empirici dell’Alterità. Il capitalismo avanzato appare come un sistema che promuove il femminismo senza donne, il razzismo senza razze, le leggi naturali senza la natura, la riproduzione senza il sesso, la sessualità senza i generi sessuali, il multiculturalismo senza la fine del razzismo, la crescita economica senza sviluppo, i flussi di capitale senza i soldi”. Ecco che, dentro una dinamica in perenne tensione, in un gioco contraddittorio e schizofrenico dove contraddizione e schizofrenia sono parte inclusa nell’ordito stesso, il lavoro esprime infine, per sua stessa costituzione, la sua dimensione monista, provando a schiacciare il molteplice contenuto nelle singole soggettività, all’interno di un’unica estrinsecazione. Nuovi e vecchi processi produttivi gravano contemporaneamente sui corpi. Arcaico e moderno convivono negli stessi territori. Mentre nelle periferie della zona industriale di Padova le operaie magrebine dividono la spazzatura adoperando le loro nude mani, le tecnologie della comunicazione della “wikinomics 2.0” non solo imitano la realtà circostante ma mutano le percezioni del corpo, segnando una nuova via alla tecnologia che si fa strada all’interno della sfera sensoriale umana, in un universo sempre più digitale. La condizione esistenziale precaria diventa dunque comune denominatore delle differenze che producono valore e ricchezze, sempre più espropriabili. Tuttavia non basta ancora. Il governo della vita – e il corpo femminile, capace di generare è, da questo punto di vista, paradigma d’eccezione – è il perno dell’impianto, elemento a un tempo simmetrico e supplementare. Ricatto del lavoro e comando sui corpi agiscono specularmente e fotografano la qualità moderna della repressione e dell’imposizione degli attuali comandi sociali, economici e culturali, laddove anche la Chiesa si ritaglia un ruolo di primissimo piano. Non più il solo tempo di lavoro è oggetto del controllo: lo sono gli infiniti attimi della nostra esistenza, dall’ambito sessuale-riproduttivo a quello dell’immaginazione e della proiezione di sé nel mondo. L’uso estensivo e privo di confini del corpo che abbiamo, fino a qui, cercato sommariamente di descrivere, non trasforma, conseguentemente, l’interpretazione classica della teoria della creazione del valore poiché essa viene modificata dal “basso”, dall’uso più complessivo e complesso che della vita tende a fare il capitalismo avanzato? Tutte le dinamiche rappresentate hanno a che vedere con forme diverse di controllo e appropriazione del corpo e della sua potenza. Ebbene, esse non dovrebbero indurci a rivendicare, coerentemente, una nuova misura del valore? Eppure, nel mercato globale, nel postmoderno, questa nuova misura del valore è attualmente introvabile. Il ragionamento meriterebbe ben più ampia trattazione, ma è proprio, fortemente, su questo aspetto che occorre sforzarsi di indagare per dare forza alla richiesta del reddito (bioreddito) come “contromisura” che non va più definita come redistributiva ma è eminentemente distributiva del nuovo e più ampio valore estratto dalla potenza della vita (affetti; cura; attenzione; relazione; dono di sé; rappresentazione di sé). E’ a partire dalla nuova forma che il valore assume nell’onnivoro capitalismo contemporaneo che la richiesta del basic income va inquadrata. Le donne possono spingere lungo quest’asse non per farne una rivendicazione di “genere” ma a partire da un’esperienza materiale più incarnata, a partire da uno sguardo che si confronta più direttamente con le politiche di controllo dei loro corpi.
L’autodeterminazione delle donne, oggi, passa, per forza, da questo imprescindibile elemento che aumenta le possibilità di autovalorizzazione dei soggetti. Per chiudere il cerchio da dove siamo partiti, la sinistra smemorata e alla ricerca di identità avrebbe molti, nuovi, compiti da svolgere. Basta che ricominci a osservare il mondo.

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