La «ribellione in musica» dei giovani palestinesi

Hip Hop L’Intifada delle parole

Un concerto a Betlemme ha concluso il programma «Hip Hop Palestine». Un fenomeno artistico e politico cresciuto tra i quartieri arabi di Gerusalemme, la Cisgiordania e Gaza, tra scantinati e sale di fortuna, dà voce alla rivolta contro l’occupazione israeliana ma anche contro la mancanza di libertà individuali, ad esempio delle donne.

Michele Giorgio

BETLEMME-Mancano pochi minuti all’inizio delle esibizioni. Un poster enorme del poeta nazionale palestinese Mahmud Darwish, scomparso una settimana fa, domina la sala conferenze dell’università di Betlemme, dove è in programma il concerto finale di «Hip Hop Palestine».
Terminate le lezioni gli studenti si affrettano a raggiungere la sala. Qualche ragazzo osserva in silenzio il palcoscenico dove i tecnici si affannano a sistemare e provare i microfoni. Ragazze con il velo islamico a passi veloci raggiungono i posti ancora disponibili nelle ultime file.
«Siamo all’atto finale, finalmente i nostri allievi potranno mostrare cosa hanno imparato in queste settimane. Tante cose però me le hanno insegnate loro in questo periodo di tempo trascorso qui in Cisgiordania. E’ stata una esperienza importante per loro e per me», spiega Wahid Mahmud, 22anni, cantante e istruttore di breakdance. E’ danese ma di origini palestinesi, i suoi genitori sono entrambi di Jenin. «Ho trovato ragazzi e ragazze che hanno voglia di esprimersi, di tirare fuori quello che hanno dentro e hanno capito che rap, spoken word e breakdance consentono tutto questo».
Dentro la sala cresce l’attesa del pubblico e la tensione della «prima volta» dei giovani artisti, alcuni dei quali non hanno più di 15 o 16 anni. Tra cavi elettrici e un mixer si agita sudato Sameh Zakout, detto Saz, uno dei rapper palestinesi emergenti: ha fatto da «insegnante» nel progetto di Hip Hop Palestine. Viene anche lui da quella fucina di hip hop che è diventato il quartiere arabo della cittadina di Lod, in Israele. Sta per cominciare. Un presentatore prende un microfono e chiede un minuto di raccoglimento per Mahmud Darwish. Poi tra gli applausi parte lo spettacolo. Sul palco si alternano rapper, talenti della breakdance e i ragazzi della spoken word, letteralmente «parola parlata», la recitazione senza musica in cui il corpo e la voce pesano quanto le parole.
Hip Hop Palestina è uno dei più importanti progetti avviati per dare ulteriore impulso a un fenomeno in fortissima crescita nei Territori occupati e nei centri arabi in Israele. Rapper e band hip hop spuntano come i funghi, ogni mese si sentono nomi nuovi, in Cisgiordania e anche a Gaza. I giovani palestinesi hanno ripreso a piene mani dalla vicenda umana e artistica dei rapper americani, osservando quanto nasce nelle periferie più povere ed emarginate delle città statunitensi, nei ghetti per neri e latinos: e hanno trasformato questa forma di «ribellione in musica», così lontana dalla loro tradizione, in un movimento politico e sociale.
«Non siamo venuti qui ad imporre modelli ma solo a offrire strumenti ai giovani palestinesi per esprimersi, per sviluppare le loro potenzialità», precisa davanti alla telecamera di una televisione tedesca Janne Andersen, responsabile di Hip Hop Palestina assieme alla scuola di musica Sabreen di Gerusalemme. «Dalla Danimarca sono giunti quattro giovani specialisti di rap, breakdance e spoken word con origini palestinesi e arabe che hanno avuto il compito di seguire decine di ragazzi a Jenin, Nablus, Betlemme, Ramallah e Gerusalemme Est. Purtroppo le restrizioni israeliane non hanno consentito di allargare il progetto anche ai ragazzi di Gaza», aggiunge.
Eppure il fenomeno hip hop è esplosivo proprio a Gaza dove tra scantinati e sale improvvisate si svolgono sempre più frequenti concerti ed esibizioni di giovani che non desiderano altro che raccontare la loro vita: l’occupazione israeliana, l’embargo economico, i valichi chiusi in faccia agli ammalati gravi ma anche la mancanza di libertà individuale, le imposizioni della religione, i condizionamenti della famiglia.
Hamas lascia fare, i suoi attivisti non intervengono: ma quando i testi dei rapper – come Dead Army, RMF, PR, Mohammed Farra – mettono in discussione l’ordinamento sociale, allora fanno la voce grossa. «Il rap, con quel modo di cantare e parlare, è comprensibile ai ragazzi di là, stanchi di canzonette d’amore. Gaza ha bisogno di voci che sappiamo riferire il suo dolore, le sue ansie, non di qualche strofa che addolcisce il cuore», spiega Sami, dei Dead Army.
Anche in Cisgiordania e Gerusalemme l’hip hop, grazie anche a gruppi come i Ramallah Underground e i Ghetto Town, si sta trasformando da subcultura giovanile a movimento politico, capace di superare le barriere territoriali creando così un fronte di protesta e ribellione che unisce i ragazzi palestinesi sotto occupazione e dei campi profughi a quelli che vivono in Israele. E le sue potenzialità sono vaste. Se Suheil, Tamer e Mahmud dei Dam rimangono la band simbolo del rap palestinese più combattivo – si esibiscono in arabo, inglese ed ebraico -, oggi accanto a loro ci sono ragazzi di Nazareth, Akko, Haifa, del Neghev – cioè arabi di Israele – che hanno cominciato a denunciare lo stato di oppressione dei palestinesi ma anche a mettere in discussione ruoli e destini, primo fra tutti, quello della donna e il suo posto nella società.
Abir Alzinaty, 24 anni di Lod, nota come Sabrina DaWitch, è la più rappresentativa delle rapper palestinesi. «Offro la mia voce per la liberazione del mio popolo dall’oppressione ma mi batto anche per i diritti delle donne, contro il ruolo esclusivo di moglie e madre che la società vuole imporci. Il mio concetto di liberazione perciò è ampio, include l’attivismo politico per la Palestina e quello per l’emancipazione femminile», spiega la giovane rapper che di recente ha stabilito contatti stabili con i Philistines, rapper palestinesi di Los Angeles. «Dobbiamo collaborare, unire la nostra voce in tutto il mondo, per farla sentire ancora più forte, aggiunge.
Sabrina DaWitch, i Dam, PR e Mohammed Farra di Gaza, WE7 di Nazareth, Mahmud Shalaby e le ragazze Arapayat di Akko, sono stati protagonisti del film Slingshot Hip Hop, della regista arabo-americana Jackie Salloum, sul rap palestinese, selezionato per il Sundance Festival e che da mesi continua a girare tra gli Stati Uniti, l’Europa, il mondo arabo, Israele e i Territori occupati. «Attraverso l’hip hop i giovani palestinesi rafforzano la loro identità nazionale, ribadiscono i principi comuni e provano a scardinare le forme più oppressive dell’ordinamento sociale . E’ un’esigenza diffusa che ho raccolto ovunque, a Beddawi, Shatila, Burj al Barajne e nei altri campi profughi palestinesi in Libano dove un paio di settimane fa ho proiettato il film«, dice Salloum.
All’hip hop locale il commentatore palestinese Omar Barghuti, noto anche come critico d’arte e coreografo, rimprovera la mancanza di «genuinità». I giovani palestinesi, dice, «hanno fatto copia e incolla di questa forma d’arte della protesta che viene dall’America, senza svilupparne una propria». Riconosce però lo spessore politico del fenomeno. «Le potezialità politiche e sociali sono enormi. Soprattutto nelle zone arabe di Israele ormai non è più possibile organizzare un raduno politico senza invitare un rapper, il potere di questa musica sui nostri giovani è eccezionale", spiega. C’è chi parla di «Intifada hip hop», una rivolta dei giovani contro l’occupazione israeliana destinata sostituirsi a quella della moschea di al-Aqsa, che molti palestinesi considerano un fallimento. Lina Odeh di Beit Jala (Betlemme) ha solo 15 anni ma con le idee molto chiare. «Abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo, che ci consenta di dire tutto quello che ci portiamo dentro». ci dice prima di salire sul palcoscenico di Hip hop Palestina: «Il rap è la strada nuova che tanti ragazzi come me stanno percorrendo nella lotta contro il muro e l’occupazione, nel nome della libertà del nostro popolo».
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