Navtej, bruciato e dimenticato.Così un corpo che lotta per la vita abbandonato da tutti

 

 Navtej, bruciato e dimenticato così quel corpo lotta per la vita

 

ROMA – Con il suo nome – Navtej Singh Sidhu – non lo chiama
nessuno. L’uomo di trentacinque anni arso vivo da mani italiane nella
notte tra il 31 gennaio e l’1 febbraio scorsi su una panchina di marmo
della stazione di Nettuno è "l’indiano". "L’indiano" e basta.
"Come va con l’indiano?", chiedono due interniste trafelate
affacciandosi alle porte spalancate dell’unità di rianimazione
dell’ospedale Sant’Eugenio. "Che cerca forse l’indiano?", domanda un
portantino. "Mi scusi, sono qui per l’indiano", accenna con deferenza
verso il medico di guardia Singh Balraj, uomo piccolo e sorridente che
guida la comunità romana. "Sono con i parenti arrivati
dall’India. La nonna e il cognato. Vorrebbero sapere come sta".
"Sì, ma a noi chi ce lo dice che sono parenti? Ce lo dice lei?".

L’"indiano" è una mummia di garza sterile oltre un vetro spesso
tre dita. Protetta da un paravento di tela grigia che ne mostra di
sguincio il profilo. I polmoni si gonfiano del ritmo regolare della
ventilazione artificiale che pompa ossigeno attraverso una cannula
introdotta nella gola. Il monitoraggio cardiaco è un impulso
elettrico verde che registra ogni picco del cuore. Gli occhi sono
chiusi dalla sedazione. Le dita, trafitte dalle flebo. L’indiano
è grave. Lo hanno operato per la seconda volta. Riaprendo piaghe
chiuse appena una settimana fa. I chirurghi sono tornati a sollevare la
cute di cadavere fatta arrivare a Roma dalla banca della pelle di
Cesena e utilizzata per tamponare l’aggressione delle infezioni
sviluppate dai tessuti necrotizzati.

Hanno affondato di nuovo il bisturi nell’addome, nei quadricipiti, nei
polpacci. Per scoprire che le fiamme, quella notte, si sono mangiate
tutto quello che hanno incontrato. Fino all’osso. Per cinque ore, un
bisturi a idrogetto ha sparato acqua a 1.500 chilometri orari tra una
fascia muscolare e l’altra ripulendo tessuto morto. Anche dove, sulle
creste tibiali, di tessuto non ce ne era più. Un secondo bisturi
ha inciso francobolli di cute lungo le braccia per trasferirle su gambe
e addome. La chiamano "tecnica di Alexander". E’ un autotrapianto che
serve a proteggere e ricostruire lentamente il corpo quando, tra
qualche giorno, rigetterà la cute che lo ha sin qui protetto e
che non gli appartiene. Quella di cadavere.

 

 L’indiano è grave. Vito Verardi, uno dei chirurghi dell’equipe,
strizza per un attimo gli occhi arrossati dalla stanchezza. "Mi creda,
è incredibile il fuoco che ha preso quel ragazzo. Dobbiamo
aspettare la notte. Perché sarà una notte difficile". Poi
abbassa repentinamente la voce. La nonna e il cognato dell’"indiano" si
sono fatti avanti a piccoli passi. Se ne stanno a piedi giunti sulla
linea che divide una fila di poltroncine in plastica azzurra dal
linoleum verde della rianimazione. "Avtor Singh", si inchina lui
congiungendo le mani e provando a scandire il suo nome. Poi indica la
vecchia che gli si stringe a un braccio, "Tej Kaur". La testa di Avtor
è stretta in un turbante arancione. La veste, di cotone,
è coperta da un giubbetto di velluto verde. I piedi nudi, viola
per il freddo, calzano delle khusa d’argento, pantofole di cuoio aperte
sul collo. "Le scarpe della festa", dice Singh Balraj con un sorriso.
Non pantofole di feltro, come quelle che proteggono i piedi piccoli e
malfermi di Tej. La donna ha 87 anni. E non vede suo nipote da nove. Da
quando, 18 febbraio del 2000, lasciò il Punjab per l’Italia.
Avtor si spacca la schiena nei campi di Dala, un villaggio di
agricoltori nel Punjab. Tej veglia sulla nipote e i due pronipoti, che
è tutto quello che le è rimasto nella vita dopo che
l’altro nipote Navtej è partito per l’Italia. Per trovarli ci
sono voluti dieci giorni. Per portarli in questo seminterrato del
sant’Eugenio, tre. I soldi del biglietto non li avevano. Li ha tirati
fuori la comunità indiana a Roma, che li ospiterà per una
settimana, e, a titolo personale, l’assessore regionale Silvia Costa,
che ora li guarda in disparte e insieme a Singh si fa interprete con i
medici.

Verardi scuote la testa. Stringe delicatamente le spalle della nonna.
"E’ meglio di no. E’ meglio che non veda. Non ora". Tej sorride e non
capisce. Non parla una parola che non sia il dialetto del Punjab.
Chiede a Singh che ringrazi tanto i medici. Verardi si rivolge allora a
Avtor. "Forse solo lei, se vuole, può venire dietro il vetro. Ma
forse, sarebbe meglio in un altro momento. Magari domani mattina".
Avtor fissa con uno sguardo interrogativo Singh e chiede allora se non
sarà troppo tardi. Chiede che raccontino ai medici quanto
è durato il suo viaggio. Promette che vuole solo vedere. Solo
vedere, ripete.

Gli è concesso un minuto. Dietro il vetro. Dove qualcuno gli
indica un corpo che altrimenti non riconoscerebbe. "Sta bene", dice
alla nonna quando esce. "Dorme". Gli si avvicina allora una signora dai
capelli bianchi. Lo sfiora con un gesto di affetto. E’ la figlia della
donna di 88 anni che divide con Navtej la stanza in cui entrambi
vengono tenuti in vita. "Anche mamma dorme", dice. "Dormono sempre".
Sono arrivati insieme al sant’Eugenio. Lui arso vivo da una bottiglia
di birra piena di benzina. Lei da una stufa elettrica. "Meno male che
adesso questa povera creatura ha qualcuno. Stella mia, è
così giovane". Dal primo febbraio lei non è mai mancata.
Era il giorno in cui al capezzale di Navtej accorsero in tanti. Il
giorno in cui lei chiese, di fronte al seguito di cronisti e guardie
del corpo e riflettori che accompagnavano il presidente del Senato,
Renato Schifani, se fosse possibile non spaventare la madre. E’ stata
accontentata. L’indiano non lo ha cercato più nessuno.

L’indiano è diventato un bollettino medico di dieci righe
quotidiane, buono per una breve in cronaca.
Quello di stasera dice
che l’indice di sopravvivenza è ancora fermo al 40 per cento.
Sei possibilità su dieci di non farcela. "Intanto superiamo la
notte. Intanto aiutiamolo a tornare a respirare da solo", si congeda
Verardi. E poi? "E poi sarà comunque un calvario. Le operazioni
sono appena cominciate". Avtor e Tej ascoltano e non capiscono.
Sorridono. "A domani mattina, allora", dice Singh. "A domani".

 

This entry was posted in antifascismo, antisessismo, antirazzismo. Bookmark the permalink.