Cosi’ si vive a Lampedusa, Isola carcere d’Europa

Così si vive a Lampedusa isola carcere d'Europa

ISOLA DI LAMPEDUSA –
Il pattugliatore 290 della Capitaneria di Porto lascia la darsena del
molo vecchio con la luce del primo giorno, scatarrando cherosene
nell’azzurro cobalto dei fondali. Perché la clemenza del
bollettino del mare e la disperazione di chi lo attraversa sono
più forti di un decreto legge. Perché per quarantotto
ore, il canale di Sicilia si fa laguna e nella notte torna a restituire
uomini, donne e bambini alla deriva. Questa volta, e "per disposizione
di Roma", agganciati sui loro barconi oltre l’orizzonte e destinati
alle spiagge di porto Empedocle, in Sicilia, e ai centri di
identificazione ed espulsione (Cie) dell’isola madre.

In una coltre di "discrezione" che consenta di dire che gli sbarchi su
questo scoglio di 20 chilometri quadrati si sono spenti d’incanto dopo
il consiglio dei ministri che appena venerdì ha riscritto un
significativo paragrafo della Bossi-Fini. Con la stessa rapidità
con cui sono state soffocate prima, e cancellate dai palinsesti
televisivi poi, le fiamme della rivolta tunisina nel centro di contrada
Imbriacole.

È una finzione che, a ben vedere si è già svelata,
nella notte tra sabato e domenica, sulle rocce di Punta Sottile, dove
un gommone ha scaricato nove ombre inebetite e incartapecorite da
freddo, acqua e salsedine, che parlavano la lingua del Maghreb.
È una finzione che deve sedare la collera di seimila isolani e
del sindaco ribelle che ne è alla testa, un ex seminarista nato
a Pantelleria, eletto con il Movimento per le Autonomie di Lombardo,
che di nome fa Bernardino De Rubeis e ha inopinatamente cominciato a
chiamare le cose con il loro nome. Qui, sulla terra ferma e persino a
Bruxelles. Dimostrando che Lampedusa non è la nuova linea del
Piave contro la spallata dei migranti del sud del mondo. Ma ne è
e ne sarà solo la discarica. Non più luogo di transito
della disperazione. Ma suo centro di stoccaggio e smaltimento
definitivo.

IN PIAZZA Libertà, appesi agli infissi scrostati delle case che
affacciano sul corso e a quelle del fatiscente Municipio, lenzuoli
imbrattati di vernice rossa e verde lo raccontano a modo loro. "Le
carceri al Nord, anche lì spazio ce n’è"; "Maroni affonda
Lampedusa. Lampedusa affonda Maroni"; "Pacchetto vacanze Lampedusa
2009. Camera con vista mare, gita in barca con avvistamento
clandestini. Visita guidata Centro di identificazione ed espulsione e
la sera birra con amico africano. Inoltre, per la vostra sicurezza, un
militare per ogni bella donna. Il tutto offerto dal presidente
Berlusconi e dal ministro Maroni. Grazie".

 I numeri del Viminale dicono che alla mezzanotte di sabato 21 febbraio,
nel Cie di contrada Imbriacole i detenuti, che la burocrazia
dell’immigrazione chiama "ospiti", erano 579. Tutti tunisini. E che a
quella stessa data e ora, il "dispositivo di sicurezza" sull’isola
aveva raggiunto i seicento effettivi. Un uomo in divisa per ogni
migrante. O, se si preferisce, un uomo in divisa ogni dieci isolani.
Carabinieri dei battaglioni di stanza in Sicilia, reparti mobili della
polizia di stato risucchiati dalle questure di Catania e Palermo,
finanzieri, soldati di esercito e aeronautica militare assegnati
all’operazione "Strade sicure". Occupano ogni posto letto disponibile
sull’isola (gli alberghi sono al completo fino ad agosto) e hanno
trasformato il paesaggio verde e turchese dell’isola in un pezzo di
Ulster italiano.

Soldati smontanti che fanno jogging sulle banchine. Cellulari per il
trasporto dei reparti antisommossa parcheggiati con il muso rivolto
verso l’oasi naturale dell’isola dei conigli. Scudi di plexiglass e
sfollagente appoggiati all’ingresso delle taverne del porto dove
vengono serviti spaghetti al nero di seppia e calamari alla plancia in
convenzione con il Viminale.

"Lei come la chiama questa, eh? La chiama isola o la chiama carcere?
È Lampedusa o Guantanamo?", dice il sindaco. A Roma, gli danno
ora del pazzo, ora dell’irresponsabile, ora del furbacchione pronto a
flirtare con quel che resta dell’opposizione di centro-sinistra e,
prima o poi, a scendere a patti con il Governo, magari in cambio di un
congruo indennizzo. Lui sembra infischiarsene e ripete come un disco
rotto quel che nessuno sembra disposto ad ascoltare sulla terra ferma.
"Qui i senza futuro non ci possono stare. Noi possiamo continuare a
fare quel che abbiamo fatto fino a un mese fa, quando il nostro era
ancora un centro temporaneo di primo soccorso. Accogliere e strappare
alla morte in mare chi arriva qui fuggendo la guerra e la miseria. Ma
non possiamo fare di più. Lampedusa può essere un centro
di transito, non può diventare la tomba dei clandestini in
attesa di rimpatrio coatto".

Per spegnere l’ex seminarista che si è fatto incendiario,
è arrivata sull’isola la donna che, per anni, ne è stata
il braccio destro. L’ex vicesindaco Angela Maraventano, nata, cresciuta
e residente a Lampedusa, oggi senatrice della Repubblica eletta con la
Lega in un collegio scelto a caso in quel dell’Emilia Romagna. Di De
Rubeis, la Maraventano pensa e dice il peggio. Di quel che sarà
o dovrà essere l’isola dice di essere sicura tanto quanto la
maggioranza di governo che rappresenta: "Fine del buonismo. Chi arriva
a Lampedusa deve sapere che da qui ripartirà solo per tornare a
casa propria. Il sindaco non vuole il Cie? Io l’ho detto a Maroni: per
me i centri li possiamo anche fare in mare. Sulle navi della marina,
così questi che ancora ci provano non toccano neanche terra.
Hanno bruciato il centro? E noi lo ricostruiamo. Subito. Provano a
bruciarlo di nuovo? E noi gli togliamo gli accendini e le sigarette,
che fanno anche male alla salute. Il piano Maroni funzionerà.
Vedrete, se funzionerà".

Le statistiche lasciano prevedere il contrario. Il 70 per cento dei
migranti che raggiungono Lampedusa fugge le guerre del Corno d’Africa e
non c’è decreto legge che possa metterne in discussione il
diritto all’asilo politico, riconosciuto dalle Nazioni Unite. Dunque,
in Italia resteranno. Solo il trenta per cento (tunisini, marocchini,
egiziani) arriva da quel Maghreb verso il quale dovrebbe essere
rimpatriato. Ma è un numero così alto che non c’è
discarica o prigione che possa contenerli. Novemila migranti maghrebini
nel solo 2008. Vale a dire almeno otto volte il numero di clandestini
per il quale gli accordi bilaterali chiusi dal nostro Paese consentono
il rimpatrio coatto ogni anno.

Non è un calcolo complicato. Se da domani non arrivasse
sull’isola anche un solo maghrebino in più (e non sarà
così), ci vorrebbero almeno sette anni per riportare indietro
quelli che già sono in Italia.
Ma nella logica di una
gestione dell’emergenza che ricorda come un calco – persino nel
linguaggio – quella dell’immondizia campana, lo stato di eccezione
permanente si fa norma. A Lampedusa uomini e cose vengono impilati in
buchi scavati nella terra. Gli uomini a Sud, nel centro sprofondato
nella forra di contrada Imbriacole (le donne e i minori, in questi
giorni assenti dall’isola, sono trattenuti nella ex base Loran
dell’aeronautica, a Ponente). Le cose a nord, in una ferita aperta
dalla Protezione civile tra le argille di Taccio Vecchio, area naturale
a protezione integrale della Comunità europea, violata dalle
ruspe della Protezione civile in nome delle "procedure in deroga" per
gli stati di calamità. Tre colline di legno, gomma e ferro,
dove, inclinati su un fianco come carcasse di cetacei, riposano i
barconi della disperazione, marchiati al loro arrivo con la vernice
rossa di chi li agguanta (G. F., guardia di Finanza; C. P. Capitaneria
di Porto) e destinati ad essere "tritovagliati" insieme alla rumenta
dell’isola.

Simona Moscarelli, avvocato dell’Organizzazione Internazionale Migranti
(una delle ong, che con "Save the children", l’Alto commissariato per
le Nazioni Unite e la Croce Rossa lavora nel Centro di identificazione
ed espulsione), racconta che ai prigionieri dell’isola nessuno ha
ancora avuto il coraggio di comunicare quale sarà il loro
destino. Che, verosimilmente, toccherà farlo a una delegazione
del governo tunisino attesa per oggi. "Vogliamo prima capire se il
decreto si applicherà anche a chi è sbarcato prima
dell’approvazione della nuova legge", dice abbassando lo sguardo. Anche
perché ricorda cosa è stato, sin qui, spiegare agli
"ospiti" un altro dei buchi neri in cui la burocrazia dello smaltimento
migranti ha sin qui annegato i ricorsi di chi, dichiarandosi minorenne,
viene al contrario destinato al rimpatrio perché ritenuto
maggiorenne. "La legge prevede il diritto di ricorso al Tar. Ma quello
di Palermo si è dichiarato incompetente a favore dei giudici di
pace di Agrigento. I quali, però, si sono detti a loro volta
incompetenti. E comunque, chi ricorre non può contare sul
gratuito patrocinio degli avvocati".

Ricorrere è inutile. Quasi quanto chiedere oggi accesso al
Centro. Non è un carcere, dicono. Ma, esattamente come un
carcere, è ora impermeabile al mondo esterno "per motivi di
incolumità". Gentili funzionari del Viminale assicurano che
"tutto è tranquillo". Che "gli ospiti giocano persino a
pallone". Dalla collina che lo sovrasta, lo spettacolo è
diverso. Nei due bracci sopravvissuti all’incendio, separati dallo
scheletro di lamiera dell’edificio fuso dal calore delle fiamme, una
folla di uomini ciondola e spesso grida, agitando stracci dai ballatoi
degli alloggi in cui è stipata. In brande e a terra. Nell’unico,
angusto cortile, si sta seduti a gambe incrociate per l’appello, sotto
lo sguardo di poliziotti trasformati in secondini. Tanto da strappare a
Franco Maccari, segretario generale del Coisp, sindacato di polizia,
arrivato sull’isola per guardare con i suoi occhi, che "in una
situazione così degradante e allucinante, il peggio può
ancora venire".

Una nuova rivolta o magari un’altra notte come quella del 6 febbraio
scorso. Alle 19 di quel venerdì, come ne documentano i registri
di ingresso, arrivò nel poliambulatorio dell’isola il primo
tunisino trasportato d’urgenza dal Centro. E dopo di lui, altri otto.
Fino alle 5.20 del mattino. Nello stomaco di tutti, imprigionati in
molliche di pane e morsi di patata, "corpi radio opachi". Lamette da
barbiere. Nascoste nelle protesi dentarie al momento dello sbarco e
ingoiate poi. Per bucarsi dentro e riuscire ad evadere dall’isola che
si è fatta sarcofago.

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