Autobiografia di un diverso( parte prima)

Pubblichiamo come promesso la seconda parte del romanzo…

da leggere con attenzione..

 

Uno

 

 

La
mattina si svegliò di soprassalto, investito da una voglia irrefrenabile, una
voglia quasi disumana. Ma di che voglia si trattasse, non lo aveva capito. Si
guardava attorno spaurito, quasi a dire: ma che ci sto a fare qui? La camera
era vuota, le valigie pronte. Quel pomeriggio la madre lo avrebbe accompagnato
in macchina a Terra,dove lo aspettava una casa nuova, un ambiente diverso, un
posto certamente differente. Erano mezzogiorno, ma prima di partire voleva
salutare i suoi amici, almeno quelli che erano rimasti ancora a Sud. Si vestì
velocemente e uscì di corsa.

Alex
era un tipo strano, differiva molto dai ragazzi della sua età. Pensava con la sua
testa e criticava qualsiasi cosa che non lo convinceva. Parlava spesso con i
professori di temi d’attualità e a volte i docenti si spaventavano del suo
immenso bagaglio culturale.Aveva una sensibilità acuta ma non ancora
ideologizzata. Non era di destra, quello solo diceva, e aggiungeva che nemmeno
la sinistra gli andava a genio. Ma non si capiva bene cosa volesse dire. Quando
gli amici lo sfottevano, perché si vestiva strano o faceva discorsi sulla
politica, lo etichettavano: ecco, ora inizia a fare il comunista. Ma lui
rispondeva che non era comunista, ma che non era di destra. Un giorno era alla
Trinità, la piazza dove si incontrava sempre con i suoi amici, a parlottare con
Stefano e Mary. Si avvicinò a lui un ragazzo di colore che vendeva accendini.

-Tre
accendini, un euro, compra amico-.

 Stefano lo guardò con disprezzo e lo mandò a
quel paese. Alex, aveva solo 16 anni, rimase fermo un attimo, esaminò nella sua
testa la questione. Il marocchino si allontanò,coperto dagli insulti di
Stefano; Alex, dopo un minuto, lo inseguì e rimase a parlottare con lui. Tornò
dopo parecchi minuti da Mary e Stefano. Aveva in mano una ventina di
accendini,ne aveva comprati il più possibile. Stefano lo guardò perplesso.


Ma sei scemo? Ma lo sai che questi qui ci rubano il lavoro a noi italiani,
spacciano e rubano, so’ delinquenti!-.

Ad
Alex si infiammò il cuore.

-Ma
ti sei mai chiesto perché lo fanno? Ma lo sai da dove vengono? In che
condizioni vivevano nel loro Paese? Credi che si divertano a vendere accendini,
credi che se loro potessero non farebbero altro, credi che sia facile per un
ragazzo di venti anni abbandonare la propria terra, la propria famiglia e
venire in un altro Stato dove neanche parlano e conoscono la lingua, credi che
sia facile vivere vendendo accendini?eh? pezzo di cretino, non pensi che
bisognerebbe aiutarli?tuo nonno sessanta anni fa per sopravvivere dove pensi
che fu costretto ad andare? In America. Altrimenti qui con la miseria e la
povertà sarebbe crepato. Ora però tu ci mangi, grazie ai sacrifici di tuo
nonno. Hanno bisogno di venire in Italia, sai, hanno bisogno di vivere anche
loro!-Stefano era allibito. Mentre Alex parlava gli brillavano gli occhi, era
come se avesse accumulato anni di collera e fosse esploso.

-Oh,
scusa Alex, io stavo solo a scherzà un po’-

-Eh,
vedi di non scherzare su stè cose, che mi girano i coglioni, sté!-.

Diede
un bacio a Mary e se ne andò da solo per il Corso a riprendere quel ragazzo di
colore. Poi con Bambah sarebbe diventato amico.

Quella
tarda mattinata arrivò alla Trinità con il cuore angosciato, un po’ perché
aveva paura di non trovarsi bene a Terra un po’ perché in fondo gli dispiaceva
di lasciare la città in cui era nato e cresciuto, gli amici, i posti
dell’infanzia. C’erano tutti in piazza, Sara, Mary, Stefano, Mauro. Tutti sapevano
che Alex stava partendo.

-Oh,
però il fine settimana torni qui vero? Mica mo’ fai come gli altri che non
torni più?- facevano in coro i ragazzi.

-Ma
smettetela, dai, che domenica sono gia qui-.

Poi
si prese sotto braccio Sara e si aqquattò con lei. Sara era la sua migliore
amica. Quattro anni fa ci si era mezzo fidanzato, erano stati assieme per un
po’, ma poi avevano capito che la loro era una amicizia troppo bella per
andarsi a rovinare con un classico fidanzamento. Sara era bellissima,
corteggiatissima da tutti, alta, capelli scuri lunghissimi, sorriso da favola,
corpo mozzafiato. E poi era come lui: una sognatrice,amava la natura, i prati,
leggeva tantissimo, ascoltava la musica a go go, era impegnata politicamente e
socialmente, disegnava e faceva teatro. Si era segnata a lettere e filosofia.
Rimase a chiacchierare con lei con un magone enorme in gola. Sara cercava di
tranquillizzarlo che sarebbe venuta a trovarlo spessissimo, che tanto si
vedevano a Sud quando tornava. Dopo un ora di abbracci e qualche lacrimuccia sparsa
qua e là, salutò tutti e si diresse verso casa.

Dopo
pranzo la madre e il nonno lo aiutarono a caricare le valigie in macchina e si
partì. La madre di Alex si chiamava Franca, era una donna molto giovane, di
appena 38 anni. Era infermiera a Sud. Con Alex aveva un rapporto strano, a
volte distaccato a volte presentissima. Fino a 14 anni, Alex la amava alla
follia, le ubbidiva sempre e la seguiva in ogni suo ragionamento. Franca lo
aveva abituato a sentirsi indipendente, lo faceva tornare tardi la sera, le
aveva insegnato ad andare solo a scuola fin da piccolo col bus, a cucinare ogni
tanto. Era sempre molto presente come mamma, ma incentrava la sua educazione
rivolta al futuro. Per questo gia a 13 anni, parlava di sesso con il figlio, di
precauzioni. Poi crescendo Alex si era allontanato da lei. E la frattura si
consumò per anni e anni.

In
macchina quel giorno nessuno dei due parlava. Alex era emozionatissimo e
scalpitava pensando alla sue nuova vita. La casa che aveva affittato era
carinissima, al centro di Terra, una cittadina piccola come Sud, accogliente e
molto nuova. Aveva in precedenza gia conosciuto i suoi inquilini. Fabio,
Riccardo e Remo. Tre ragazzi di Leccare, paesino in Toscana, che erano già
amici ed erano iscritti al secondo anno di Scienze politiche. Fabio gli era
parso un ragazzo molto allegro, spigliato, capelli lunghissimi, grosso e tozzo.
Quando lo conobbe aveva una maglietta a maniche corte con lo stemmino dei Gechi,
il piccolo partito della sinistra ecologista, e gia gli era simpatico. Aveva la
camera tappezzata di poster e fotografie sul ’68, sul Pci. Remo era uno
sportivo; altissimo, quasi 1, 95
cm, grande e corpulento. Giocava a basket, come Alex,
era un professionista e militava in B2. Nella sua camera aveva raffigurazioni
dei più grandi cestisti della storia. E Riccardo era il più misterioso. Aveva
20 anni, barba incolta, occhi grandi e neri, basso e bruttino. Quando lo
conobbe non ci scambiò nessuna parola; era vestito di nero, con una felpa strana,
con una scritta bianca che recitava: ACAB. Jeans neri e scarpette da ginnastica
rosse. La sua camera non l’aveva vista. Ma ad Alex gli era apparso un poco
antipatico, asociale.

Finalmente
arrivò a Terra.

La
madre lo aiutò a scaricare le innumerevoli valigie che si era portato e insieme
suonarono all’uscio di casa. Nessuno rispose. Aprirono allora con le chiavi che
in precedenza il proprietario dell’abitazione aveva dato ad Alex e assieme
portarono dentro i bagagli. La madre lo salutò frettolosamente avvertendolo che
lo avrebbe richiamato la sera.

Si
ritrovò solo in quella casa sconosciuta.

Entrò
nella sua camera:era tutta bianca, vuota, sapeva di uno struggente odore di
intonaco andato a male. Ma era felice, si sentiva sollevato da quella strana
sensazione di stordimento. Per anni aveva cercato conforto in un mondo che
desiderava creare, ma che ancora esisteva, e quella camera vuota e silenziosa
gli suggeriva un punto ottimo d’inizio. Stranamente non aveva più timore, tutti
i suoi dubbi sulla sua nuova esistenza sparirono. Credeva che era più facile
cambiare le cose laddove c’era una spianata di nulla davanti a sé. E quella
camera così fatiscentemente vuota, era per lui un mondo da riempire. Alex
sognava e si arrabbiava. Non capiva come gli altri ragazzi della sua età si
accontentavano di una vita così piatta, ripetitiva, noiosa. Voleva rompere le
catene di quella particolare omologazione all’esistenza, voleva strappare dal
grembo di quella società un fiore di speranza nuovo e duraturo. E la sua arma
era la scrittura. Teneva sempre appresso carta e penna, ma dall’altra sera
aveva cominciato finalmente ad utilizzare il suo portatile. E senza pensarci
troppo, con ancora le valigie piene da sistemare, seduto sul suo letto ancora
da rifare, iniziò a scrivere frasi su frasi sulla sua nuova vita. Penso e ripenso al flusso continuo delle
onde, al fruscio degli alberi sospinti dal vento, al crepitio della pioggia che
cade sul terreno arso. Mi immagino una società senza classi, senza odio, senza
guerre, senza porte alle case, senza armi e senza televisioni, senza divise. Mi
immagino una società con una fratellanza di fondo, che tenga uniti gli animi
diversi delle persone, con i pensieri liberi delle genti, con la possibilità di
scegliere il proprio futuro, senza costrizioni ne barriere ne limiti di alcun
genere. Vorrei volare per il mondo e vedere con i miei occhi che tutti gli
esseri di questo pianeta collaborino assieme per principi come equità,
solidarietà e benessere sociale. Ecco, osservo gli occhi dei bambini in questo
mondo. Gli vedo felicemente innocenti,gli vedo avvicinarsi ad un barbone con
faccia stupita e regalargli un sorriso sincero, gli vedo ammirare le stelle e
chiedersi” Cosa sono quelle lucine?”, gli vedo correre dietro un uccellino per
poterlo afferrare, per poter volare con lui, forse, gli vedo chiedersi perché
si fa la guerra, gli vedo innamorarsi dei prati, buttarsi per terra nel fango e
divertirsi da matti sporcandosi a più non posso, gli vedo sempre più spesso
disubbidire agli ordini, quasi se seguissero una legge morale interna che tiene
conto della felicità e ignorare le imposizioni che provengono dalla società,
dalla famiglia, dai grandi, gli vedo piangere disperarsi da matti e poco dopo,
per una semplice caramella tornare a sorridere, trovare la pace interiore. E
volo a pensare a quanto sarebbe bello vivere in un mondo fatto di soli bimbi,
dove qualora nascano delle controversie, delle guerre, e si iniziasse a
piangere, ad arrabbiarsi, a gridare, basterebbe una caramella alla fragola a
riportare la pace. Si, in un mondo di bambini, la pace si farebbe con una
caramella alla fragola.

E
mentre era assolto nelle sue riflessioni, sulle su scritture, gli balenò
improvvisamente nella testa il bisogno di vedere la camera di Riccardo. Infatti
era l’unica cosa della casa che non conosceva, che non aveva visto. Ora lì con
lui non c’era nessuno e quale occasione migliore poteva avere di ficcanasare
nella camera del suo inquilino. Si alzò di scatto dal letto e si diresse verso
quella stanza. Sulla porta c’era un poster di un metro e mezzo nero, con una
poesia lunga lunga. Rimase minuti a leggerla, a osservarla. Era quasi
impietrito di fronte a quella scritta.

Il
campanello della porta suonò d’improvviso e riportò sulla Terra Alex.

Remo
e Fabio erano tornati a casa.

Corse
di fretta verso l’entrata della casa; con un respiro graffiante e roco, si
fermò di scatto facendo finta di sistemare ancora le ultime cose in cucina, e
attese l’entrata dei due.

-Ehi,
ma dove siete stati?- esclamò Alex, con un finto sorriso che gli si stendeva
sul viso, un po’ come un ombrellone da mare sta sul cucuzzolo di una montagna
abruzzese.

Riccardo
accennò un saluto e si diresse subito in camera, rinchiudendo lentamente la
porta.

-Beh,
compà che hai fatto fino a mo’? Dove sei stato? Non mi dire che tutto ‘sto
tempo l’hai passato in camera?-

Alex
abbassò la testa.

-Si,
perché?-

-Ma
compà è pieno di fighe in giro a st’ora, potevi farti una passeggiata no?-

-Vado
in camera a fumare- rispose scocciato Alex.

Remo
tolse delicatamente le valigie e le borse di Alex che erano ancora rimaste in
soggiorno e le riportò nella sua camera.

-Oh,
compà sicuro che non vuoi farti due passi?Dai che io sto a riusci! Dai vie’ co
me.-

-Grazie
Remo, ma sono stanco e ho da sistemare ancora tutte queste cose qui, ci metterò
un’eternità. Magari domani andiamo.-

Remo
diede una pacca sulla spalla ad Alex ed uscì sorridendo. E così il ragazzo
rimase solo soletto nella sua camera. Con calma mise tutto a posto, appese
poster, piegò per bene tutti i vestiti, spolverò le mensole e ripose tutti i
ricordi e gli oggetti a lui tanto cari, scopò a terra e in poco più di due ore
la camera era perfetta, pulita e pronta per la vita. Come diceva lui. Quella
era la camera della vita. Aveva il pensatoio: una poltroncina girata in un angolo
verso il muro, dove c’erano scritte con una matita le seguenti parole: “al’interno di ogni uomo si nasconde una
potenza enorme, un temporale di istinti, una tempesta di sensazioni, un uragano
di emozioni, turbinii di pensieri.. e i cambiamenti nel mondo, avvengono solo
grazie a questi misteriosi pensieri nascosti dentro ogni persona. E soltanto i
pensieri di un grande uomo possono cambiare il mondo, a patto che questo grande
uomo un giorno smetta di pensare e agisca.
” Questa frase l’aveva scritta
lui, e imprimendola sul muro, l’aiutava a riflettere. Lui diceva che quando era
in difficoltà, che aveva paura, che non sapeva come risolvere una situazione,
si sedeva sul pensatoio e, puff, come per magia, poco dopo stava meglio. Non
aveva risolto il problema, ma tornava allegro. Oltre al pensatoio, i muri erano
tappezzati di scritte di Gabriel Garcia Marquez, di Voltaire, di Gandhi,
Prhoudon. Poi c’era l’angolo della rivolta. Uno spazio su una mensola dove
aveva una candela accesa e dietro una pergamena con incise in lettere antiche
delle date: 12-12-1969. Le lenzuola e le coperte del letto erano nere, il suo
colore preferito. Per terra c’erano cataste di libri e cd, ordinatamente
riposti per autore. Al fianco del letto aveva sistemato un’arazzo regalatoli da
una sua amica, disposto dei cuscini per terra. E questa era la camera di Alex,
appena arredata, il giorno del suo arrivo a Terra. Era certamente incompleta,
ma agli occhi di una persona normale destava certamente curiosità.

Appena
finito di sistemare il tutto si guardò attorno con aria soddisfatta, si mise
per terra con il computer sulle gambe, si accese una sigaretta e cominciò a
scrivere,preso come da un raptus sessuale e maniacale con le emozioni. Le
parole scivolavano sinuose sulla tastiera del notebook, sospinte da un qualcosa
di magico, di misterioso. Pigiava forte i tasti, come se sentisse dentro il
cuore quello che stava scrivendo, come se quelle frasi sgorgassero fuori in
tumulto perpetuo. Se la stava prendendo contro i ritmi frenetici della vita, contro
le tradizioni perse, contro le tecnologiche esistenze futuristiche. Così, da un
momento all’altro aveva cambiato espressione. Prima tutto felice per la camera
appena riordinata, un attimo dopo cupo e arrabbiato per come si stava evolvendo
l’universo. Era fatto così quel ragazzo. “E’
un attimo, un batter di ciglia.. Nessuno qui si rende conto che, risparmiando
tempo, in realtà risparmia tutt'altro. Nessuno vuole ammettere che la sua vita
diventava sempre più povera, sempre più monotona e sempre più fredda.
Se ne rendono conto i bambini, invece, perché nessuno ha più tempo per loro. Se
ne rendono conto invece i fratelli migranti, perché nessuno tende più loro una
mano mentre vengono rinchiusi nei Cpt. Se ne rendono conto i cortili e i
parchi, perché nessuno più trova il tempo di correre tra l’erba e sentire il
profumo inebriante degli alberi in autunno. Se ne rendono conto le nostre
emozioni, che vengono paralizzate, freddate e spazzate via dalla logica
dell’immediatezza e della frenetica ricerca del risparmio temporale.
Ma il tempo è vita. E la vita risiede nel cuore. E quanto più ne risparmiamo,
tanto meno ne abbiamo.

Corriamo come
dannati per la città, stressandoci e innervosendoci se il semaforo rosso ci
ingabbia per un minuto in più sulla strada,fissiamo appuntamenti ore dopo ore
e, per rispettarli, facciamo salti mortali, limitando il tempo che dovremmo
passare con i nostri figli, ci strozziamo per ingurgitare un tramezzino sotto
il bar del nostro ufficio, pronti subito a scattare per riprendere il posto di
lavoro puntuali e precisi, pur di risparmiare tempo siamo disposti a fare
acquisti su internet, pagare le bollette su internet, innamorarci su internet,
fare amicizie su internet, fare sesso su internet.. Abbiamo perso completamente
la testa stando dietro a questa società che ci impone ritmi sferzanti di tempi
lampo. Questa società classista e capitalista che ci abbandona come relitti in
un oceano e che è manovrata da soli pochi grandi potenti.

Abbiamo fame,
dobbiamo lavorare per mangiare. Abbiamo bisogno di muoverci, dobbiamo pagare
per farlo. Vogliamo una casa, dobbiamo 
lavorare per affittarla/comprarla. Vogliamo cultura, leggere, ascoltare
musica, vedere mostre, dobbiamo pagare e andare a lavorare per avere ciò.
Vogliamo studiare, dobbiamo pagare. Viaggiare e pagare. Leggere e pagare. Bere
e pagare. Avere luce gas e acqua e pagare. Respirare e pagare. E il lavoro?A
volte precario, a volte in nero, a volte continuativo, a volte massacrante,
demoralizzante, RIPETITIVO, pericoloso ci prende ore ed ore interminabili nella
giornata. Così facendo ci costringono a lavorare, ci tengono buoni con il
lavoro, ci estraniano dalla vita sociale, ci lobotomizzano il cervello con
facili guadagni ed incentivano chi lavora di più, ci controllano facilmente e
ci tengono sott’occhio e soprattutto riescono così a farci fare quello che loro
vogliono, per i loro sporchi profitti. Ci rubano i nostri respiri, le nostre
passioni, i nostri sogni. Ci tagliano le ali per volare, ci frammentano le
nostre sensazioni e ci rendono impauriti e tremanti davanti al futuro. Questo
tempo, per il quale siamo sempre di fretta, per il quale non riusciamo a stare
tranquilli, lo rivogliamo! Basta con questa frenetica vita impazzita, dove
tutto corre e sfreccia. Basta. Sapete, nella Lucania del secolo scorso, uomini
come noi, italiani, contadini, celebravano il rito del capro espiatorio, per
allontanare – all’inizio dell’inverno – il timore del “vuoto vegetale”, ossia
di quel deserto che rimaneva dopo i raccolti, dopo il fuoco del Sole sulla terra
riarsa dell’estate. Folli.
Oggi siamo così sicuri del ritorno della primavera e abbiamo così poco
tempo  da spendere che non sentiamo il
bisogno di corteggiarla con un rito, non avvertiamo la necessità d’evocarla per
tacitare la nostra paura del vuoto e del buio invernale, del tetro avanzare del
freddo che ci ricaccerà nei nostri cubicoli superbamente arredati – CD, DVD,
CCD, DVX, DDT, ADSL, USB, DS, AIDS – con tutto quel che serve per fare
spallucce al gelo dell’inverno. Non abbiamo più tempo per l’amore. Gli italiani
non trombano quasi più, non ne hanno tempo: almeno, lo fanno più
“correttamente”, “coscienziosamente”, “responsabilmente” e “consapevolmente”.
Per meglio dire, con troppa “mente” e poco corpo, meno sudore e più docce, poca
passione e tanto calcolo. “Posso invitarti a cena” è diventato quasi sinonimo
di “forse, possiamo farci una scopata”: un tempo, queste cose si lasciavano al
linguaggio non scritto dei corpi aggrappati nel ballo, attratti, sfregati dalla
voglia e sfrenati nella passione.                                                                                          «Ciò
che è vuoto è destinato inevitabilmente a riempirsi, e ciò che è pieno a
vuotarsi» affermava nella notte dei tempi Lao-Tze, forse mentre osservava
l’acqua scorrere nelle risaie a terrazza dell’antica Cina, oppure mentre
ascoltava fremere il corpo dell’amata.
Con la perdita del valore temporale ci siamo riempiti le case di cazzate e le
abbiamo svuotate di figli, di parenti, d’amici, di discorsi, di emozioni, di
intelligenza. Non sappiamo più vivere nelle vecchie case a ballatoio, con il
cortile a fare da teatro per tutte le passioni e le miserie del caseggiato:
avremmo paura. Svuotati di passioni, privati di sentimenti, annegate persino le
idee nel nome del “politically correct”, ci coaguliamo – statici – di fronte ad
uno schermo di vetro dove scorrono gli stereotipi della nostra vita,
l’ammaestramento che ci è necessario per continuare a morire di noia. Senza
tempo.                                                      
                                            “La
demografia italiana ne soffre” sussurrano dal più alto Colle fino all’ultima
sacrestia dello Stivale: non ci sono più stuoli di ragazzini che riempiono gli
oratori ed i campi di calcio – quelli “liberi”, ovviamente – perché quelli
“targati” qualcosa – fosse anche la squadra del Ranuncolo Rampante – diventano
subito il sogno dei genitori, quello di vedere trasformati i polpacci del
proprio figlio in dobloni. Con i quali comprare subito l’ultimo modello di cellulare
che invia nell’etere anche frecce, chewing-gum e pannolini. Cellulari e viaggi
“last minute”, portatili dei quali useremo il 5% delle risorse e televisori in
ogni angolo della casa: soldi, servono soldi, lavorare, mungere, sfruttare,
vincere per avere altri cellulari, altri viaggi…
A questo ci siamo ridotti. A questo ci hanno portato. E continuano a manovrarci
come burattini. Senza tempo.

Addirittura non facciamo più figli; non ne abbiamo
tempo. La natalità in questo Paese è ai limiti storici.

I consumi, per Dio! Non sia mai che crollino i
consumi, altrimenti l’anno prossimo mi potrò solo sognare il trekking sulle
Ande ed il safari fotografico in Kenya! La produzione, per Dio! Se non c’è
nessuno che lavora, come produciamo per consumare?
E poi noi saremmo dei folli, soltanto perché predichiamo da anni che l’economia
liberista non solo conduce al collasso ecologico del pianeta, ma ci sta
uccidendo nella psiche e nel corpo? Quale segnale attendere ancora, quale
messaggio è più forte di una specie che non si riproduce più? Non basta
riflettere che metà della popolazione – chi più e chi meno – fa uso di
psicofarmaci? Senza Tempo. Ci hanno rubato tutto. Persino i figli.

Come delle serpi, ipnotizziamo le future prede che
attraversano il mare su malferme barchette dopo aver morso l’esca fatta di
talk-show e telefonini, oppure sospinte come branchi d’acciughe verso la rete
dagli squadroni della morte che seminiamo nel mondo, dal Kurdistan al Sudan,
dalla Colombia alla Cecenia, dall’Iraq all’Aghanistan.

Abbiamo bisogno di calma, di respirare con
attenzione, di meno lavoro, di più vita sociale. Di parlare di più, di fare più
sesso, di usare meno la macchina, di passeggiare di più, di vedere meno Tv e
usare meno il telefono, di abbandonare per un pò Internet, di viaggiare di più,
di ascoltare di più, di comandare di meno, di amare di più. E magari di farci
più canne. Si. Magari lavoriamo e amiamo con lentezza. Magari.

Riappropriamoci del nostro tempo, rigettiamo questa
società malata e iniziamo a curare di più il nostro cuore e la nostra anima.
Perché se davvero non abbiamo più tempo da dedicare ai nostri bimbi, vuol dire
che stiamo andando verso la distruzione totale delle nostre vite, delle nostre
anime, perché se davvero non abbiamo più tempo per i nostri figli vuol
certamente dire che siamo diventati una specie di cyborg omologalizzati a
questa società che ci vuole tutti uguali senza diritti, ne poteri, ne emozioni.
Badiamo bene, che questo siamo diventati e che i nostri figli crescono senza
più l’odore dei campi sotto il naso. E noi abbiamo bisogno dei nostri figli. I
figli, più che il prodotto del denaro, sono il frutto dei nostri sogni, oramai
azzerati. “
E
mentre scriveva queste parole, Riccardo entrò improvvisamente in camera.

-Che stai a fa,
Alex?- disse con quella sua voce dolce e misteriosa.

-Oh, niente
niente, cazzate,scrivevo- rispose il ragazzo, balbettando e chiudendo
repentinamente il computer. Non fece a tempo a nascondere il pc dietro di sé
che Riccardo l’aveva gia in mano che leggeva quello che aveva appena scritto.
Stette in silenzio per qualche minuto, mentre Alex lo fissava stupito ma
bloccato e impotente. Non voleva assolutamente che qualcuno leggesse le cose
che scriveva. La scrittura, le sue riflessioni, quelle sue parole erano
soltanto di Alex, a lui appartenevano e mai nessuno aveva la possibilità di
leggerle. Soltanto quando avrebbe riposto tutto in un libro, finito e
pubblicato, allora si che si sarebbe affidato alla critica e ai pensieri della
gente. Ma non prima. Mai nessuno prima ad allora era riuscito a strappare un
pezzo di carta dove aveva scritto, o sbirciato nel suo computer. E si stava
chiedendo perché proprio ora aveva dato il suo notebook a Riccardo,uno
sconosciuto. E mentre era lì che cercava di capire il senso della sua immobilità,
Riccardo gli ripose il pc sulle gambe.

-Hai stoffa
ragazzo- esclamò e uscì velocemente dalla camera. Scese le scale in fretta e
furia, salutò Fabio e Remo e uscì di casa.

Alex rimase
impietrito da quelle parole, rimase esterrefatto dalla sua voce sinuosa e
melodiosa. Era attratto da quel ragazzo, non sapeva perché ma era come se la
sua anima lo spingesse verso di lui. Attorno alla sua voce, ai suoi movimenti,
al suo modo di gesticolare, a come si vestiva, c’era un alone strano che
strappava letteralmente il fiato ad Alex, che lo incuriosiva a tal punto da
rimanerne trafitto. Doveva seguirlo, voleva vedere come si muoveva a Terra,
dove andava, con chi si vedeva, cosa faceva in giro.

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